Kabul, 19 febbraio 1989: il presidente afghano Mohammad Najibullah dichiara ufficialmente iniziato il tempo di un Afghanistan senza sovietici, volto a riconciliarsi con se stesso e i suoi aguzzi frammenti. Non si avverò nulla di più lontano da questa prospettiva. Nello stesso giorno, si verificano una serie di attacchi dei ribelli contro le posizioni governative, segnalando l’inizio di una nuova fase di un conflitto decennale, una guerra che, di fatto, determinò la fine dell’Urss e della guerra fredda.
Facciamo un passo indietro. Il 1978 segnò l’inizio di un nuovo corso per l’Afghanistan, con la “Rivoluzione di Saur”: il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) salì al potere, ma le sue fazioni Khalq e Parcham erano profondamente divise. La fazione Khalq, guidata da Taraki e Amin, impose riforme radicali con metodi brutali, alienandosi gran parte della popolazione. Babrak Karmal, leader della fazione Parcham e sostenitore di una linea più moderata, fu esiliato.
I sovietici avevano consigliato prudenza ai comunisti afghani, consapevoli della natura rurale del paese ma, sotto la guida intransigente di Amin non vi fu spazio per compromessi o esitazioni. Dove i governi precedenti avevano fallito nel modernizzare l’Afghanistan, i comunisti si imposero con determinazione inflessibile, decisi a trasformare la nazione a ogni costo, anche con la forza.
Allarmata dall’instabilità crescente e dall’incapacità di Amin di mantenere il controllo del paese, e nonostante un Breznev “tremolante”, l’Unione Sovietica decise di intervenire militarmente per evitare il collasso del regime comunista e difendere i propri interessi strategici nella regione. L’operazione principale iniziò alle 15 del giorno di Natale, quando oltre 700 membri del KGB attaccarono la residenza di Amin, eseguendone l’eliminazione. Il giorno seguente, Karmal si autoproclamò primo ministro e segretario generale del PDPA, dopo essere stato trasportato a Kabul.
L’invasione sovietica in Afghanistan venne percepita in Occidente come la prova definitiva delle intenzioni aggressive dell’Urss. Tra i massimi dirigenti a Mosca, però, l’intervento veniva considerato come un atto difensivo, una mossa da ultima spiaggia.
Una volta al potere, Karmal cercò di inaugurare una fase di pacificazione attraverso dichiarazioni di amnistia e promesse di riforme sociali. Queste iniziative furono percepite come manovre propagandistiche e non riuscirono a sopprimere la resistenza dei guerriglieri islamici (mujaheddin), i quali continuarono a intensificare la lotta armata contro il governo e le forze sovietiche.
La tensione era alle stelle, si respirava a fatica: presto si rese evidente lo scenario di un disastro totale. “Le azioni dei sovietici nei prossimi dieci, vent’anni saranno influenzate dal nostro atteggiamento in questa crisi – disse il presidente USA Jimmy Carter – Dobbiamo cercare di fare di tutto per mostrare ai sovietici che si è trattato di un errore madornale”.
Ben prima che Carter fosse sconfitto da Ronald Reagan alle elezioni del 1980, c’era pieno accordo sul fatto che l’Afghanistan potesse e dovesse essere trasformato in un “Vietnam sovietico”. Per molti islamisti l’Unione Sovietica e il comunismo divennero il nemico principale, e gli Stati Uniti un alleato strategico.
“Se l’America affronterà i russi in ogni angolo e alla fine li sconfiggerà in un solo luogo, questo evento spezzerebbe la mitologia [del comunismo come forza del futuro] e l’Unione inizierebbe a disgregarsi – disse il direttore della CIA William Casey – Di solito sembra che siano gli americani a prendersela con i locali. In Afghanistan succede il contrario. Sono i russi che se la prendono coi piccoletti. I mujaheddin hanno tutte le motivazioni necessarie. Tutto ciò che dobbiamo fare è aiutarli, aiutarli un po’ di più”.
La prima reazione di Gorbačëv alla – ereditata – palude afghana fu adottare una politica più aggressiva, fissando un termine per evitare un impegno indefinito. Nel colloquio con Reagan a Ginevra nel novembre 1985, dichiarò che l’Occidente non desiderava realmente un rapido ritiro sovietico: “Voi le volete lì, e più restano meglio è per voi”. Nel febbraio 1987 Gorbaciov era pressoché disperato: “Certo, potremmo andarcene alla svelta dall’Afghanistan, senza pensarci due volte. Ma non possiamo farlo. Sarebbe un colpo durissimo per l’autorevolezza dell’Unione Sovietica tra i movimenti di liberazione nazionale. Un milione di nostri soldati è passato per l’Afghanistan. E non saremmo in grado di spiegare alla nostra gente perché non abbiamo portato a termine [la guerra]. Abbiamo annichilito il prestigio del nostro paese, abbiamo portato un’infinita sofferenza. Perché abbiamo perduto tutti quei ragazzi?”.
Il buon esito del cambio al vertice operato da Mosca, con il ritiro di Karmal e l’ascesa del capo della polizia segreta, Najibullah, indicò che la strada era ormai aperta per qualche forma di ritiro graduale delle truppe. Gorbaciov, nelle riunioni decisive del novembre 1986, insisté perché i soldati sovietici – qualunque cosa accadesse – fossero riportati a casa entro la fine del 1988.
A metà 1987, i sovietici comunicarono agli americani che il ritiro dall’Afghanistan era parte di una più ampia intesa reciproca. Tuttavia, l’ostinazione di Gorbačëv nel completare il ritiro ostacolò i negoziati, offrendo agli Stati Uniti l’opportunità di fare ostruzionismo.
Nella gelida mattina del 15 febbraio 1989 il generale Boris Gromov superò il ponte sul fiume Amu Darya e rientrò in Uzbekistan, da dove l’Armata rossa aveva fatto ingresso nel paese quasi dieci anni prima. Per molti sovietici le modalità dell’addio – una rapida marcia senza mai voltarsi indietro – divennero il simbolo del loro rapporto con l’intervento. Nel 1989 l’orgoglio sovietico per il ruolo di superpotenza era svanito, sostituito da una crescente sfiducia nel sistema e dalla convinzione che la leadership avesse sperperato risorse all’estero mentre il popolo viveva in povertà.
Agli inizi del 1992, il regime del Pdpa si disgregò. Quattro anni dopo, una costola dei mujaheddin originali sponsorizzata dal Pakistan – i Talebani – conquistò la capitale, trascinò Najibullah fuori dal bunker in cui si nascondeva, lo torturò e lo uccise, per poi appendere il suo cadavere orrendamente mutilato. Le sue intenzioni espresse il 19 febbraio del 1989 erano ormai spezzate. Il comunismo afghano era giunto alla fine del suo percorso, una strada breve ma lastricata di sangue.