“Toy Story”: quando la Pixar decise di cambiare la storia dell’animazione

di Felice Sangermano

Senti… In quella casa c’è un bambino che ti trova fantastico, Buzz, e non perché sei uno Space Ranger, amico mio, ma perché sei un giocattolo, sei il suo giocattolo!” (Woody). Un’opera come Toy Story non viene fuori dal nulla. Ci si arriva un passo alla volta. E difatti erano anni che la Pixar stava sperimentando nel campo dell’animazione digitale, realizzando numerosi cortometraggi (come Tin Toy del 1988, vincitore dell’Oscar), ognuno dei quali aggiungeva un tassello fondamentale per la realizzazione di un disegno più grande che sarebbe stato completato solo nel 1995. Quel disegno si chiamava Toy Story, e il mondo dell’animazione non sarebbe più stato lo stesso. Partorito dunque dopo una lunga gestazione, Toy Story si poneva come il frutto ormai maturo da cogliere dall’albero delle meraviglie di mamma Pixar, che racchiudeva e sublimava tutte quelle abilità e tecniche maturate da Lasseter & Co. nel corso del tempo. Non stiamo parlando soltanto del primo lungometraggio sviluppato completamente in computer grafica (cosa già di per sè notevole, ma che da sola scadrebbe in uno sterile sfoggio di tecnica).

Toy Story è innanzitutto uno dei più bei film d’animazione americani di tutti i tempi. La Pixar cominciava qui quel lento, ma decisivo processo di distaccamento dall’animazione mainstream tradizionale: ci sono ancora le canzoni in stile Disney (che con gli anni spariranno) e la storia conserva ancora un valore pedagogico/didascalico, ma lo spessore e la serietà della narrazione si pongono su un piano diverso. Il respiro è più ampio, degno del “cinema vero e proprio”, della più matura animazione nipponica. Il target non è più solo infantile. Toy Story supera lo status di “cartone animato per bambini”. Postmoderno, citazionista, ironico, a tratti drammatico, ricco di trovate geniali. I livelli di fruizione del film di Lasseter sono molteplici. L’idea di base non è nuova, ma è sviluppata con intelligenza e sarcasmo. La dialettica tra Buzz e Woody è quella tra vecchio e nuovo, tra analogico e digitale.

Il primo capitolo della saga contiene già in nuce le principali tematiche che verranno scandagliate e sviluppate nei capitoli successivi (QUI la recensione di Toy Story 4): la crescita e il cambiamento inevitabile che il tempo reca con sé, gli equilibri che mutano, il dolore del superamento e dell’abbandono, il nuovo che irrompe, il vecchio che impara a conviverci, l’accettazione della diversità, vedere in essa non solo un pericolo, ma anche e soprattutto una possibilità di arricchimento.

E poi, non ce lo scordiamo, Toy Story è anche la storia di una rivalità, quella tra un vecchio cowboy e un futuristico space ranger, che si tramuta in una bellissima amicizia. Netta e emblematica la dicotomia fra Andy e Sid, fra il modo costruttivo di giocare del primo e quello distruttivo del secondo: Andy cura i suoi giocattoli, li tratta come fossero persone in carne e ossa, ci gioca affidando a ognuno di loro dei ruoli; Sid invece li decapita, li brucia, li smonta, li fa saltare in aria sadicamente. Ma il teppistello avrà la sua lezione, e non se la scorderà. Tutto è bene quel che finisce bene. Eppure non siamo in un film Disney.

Toy Story è semplicemente un film che va visto, destinato a cambiare per sempre il modo di concepire l’animazione mainstream, e non solo dal punto di vista delle tecniche di digitalizzazione. Nella versione originale, Tom Hanks presta la voce al cowboy Woody, mentre lo space ranger Buzz Lightyear è doppiato Tim Allen (magnificamente sostituiti nel doppiaggio italiano dal compianto Fabrizio Frizzi e da Massimo Dapporto). Inevitabile citare le bellissime canzoni di Riccardo Cocciante. Anche qui, non le solite canzonette per bambini. Si va oltre.

Verso l’infinito e oltre.

 

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