Un quesito aleggia su Toy Story 4: ce n’era davvero bisogno? Il terzo capitolo della saga aveva chiuso alla grande quella che a tutti gli effetti sembrava una trilogia, con Andy ormai cresciuto e in partenza per il college che in una scena strappalacrime donava Woody, Buzz e soci alla piccola e timida Bonnie. Il cerchio si chiudeva. E ci saremmo ricordati di Toy Story come della più bella saga Pixar. Amen.
Perché allora riaprire l’arco narrativo con un nuovo “pericoloso” capitolo? Perché rischiare di sporcare una saga perfettamente compiuta con un’aggiunta di cui nessuno sentiva veramente il bisogno? Dopo Toy Story 3 davvero sembrava non ci fosse null’altro da dire. E allora, il primo pensiero è stato che si volesse sfruttare a ogni costo il richiamo del franchise prolungandolo in una saga infinita. Vili questioni di denaro. Come sempre, in fin dei conti. Il timore diventava ancora più palpabile per via delle vicissitudini produttive che hanno accompagnato la realizzazione del film, dai primi annunci smentiti, passando per le varie sostituzioni, sia alla regia (con papà Pixar John Lasseter che cedeva completamente a Josh Cooley), sia alla sceneggiatura (con Rashida Jones e Will McCormack che lasciavano il progetto per divergenze produttive con la Pixar e venivano sostituiti da Stephany Folsom). Senza contare che l’ultimo film dello studio d’animazione (Gli incredibili 2 del 2018) era stato tutto fuorché esaltante.
Ecco perché ci siamo presentati in sala disillusi, dubbiosi, disingannati. Ci siamo stiracchiati sulle poltrone del cinema pronti a tutto. Ma davanti allo schermo lo scetticismo si è dissolto in un baleno. Quando meno te l’aspetti ecco venir fuori un sequel che non solo ha ben ragione d’esistere, ma che per certi versi è addirittura migliore dei precedenti. Emozionante. Profondo. Creativo. Divertente. Insomma, per tutti quelli che avessero dubitato, cospargiamoci il capo di cenere e chiediamo scusa a mamma Pixar.
D’altra parte, la regia di Josh Cooley era “quasi” una garanzia. Non si chiamerà John Lasseter, ma Cooley non era certo un nome nuovo alla Pixar, avendo dato prova del suo talento in lavori come Up (2009), Ratatouille (2007) e Inside Out (2015). Il livello tecnico del film è davvero impressionante (come sempre accade coi prodotti Pixar). Ma ciò che maggiormente colpisce e distingue questo quarto capitolo dai precedenti sono i sottotesti, i diversi livelli di fruizione, che non si fermano all’avventura rocambolesca e all’ironia (la sequenza in cui Forky cerca di buttarsi ripetutamente nella spazzatura e Woody continua a salvarlo sulle note di I Can’t Let You Throw Yourself Away di Randy Newman è da antologia delle risate), ma spaziano come non mai attraverso omaggi di stampo cinematografico e profonde riflessioni.
Perché Toy Story 4 tocca un coacervo di tematiche. È una storia d’amore, ma anche il dramma di un singolo, Woody, chiamato a un nuovo corso che a primo impatto sembra smarrirlo. È un film sulla crescita e il cambiamento inevitabile che il tempo reca con sé. Una riflessione sull’accettazione di quel cambiamento. Sulle difficoltà del prendere nuove strade. Sull’abbandono e il superamento dello stesso. Sul senso del dovere e sulle seconde occasioni (quanto sono toccanti le inquadrature delle mani di Woody mentre saluta per sempre, e poi di nuovo per sempre, Bo Peep?). È anche un film sulla diversità, emblematizzata nel “giocattolo diverso” Forky e sul valore che noi, e solo noi, decidiamo di attribuire alle cose. Perché Forky, ricavato dalla spazzatura, diventa il giocattolo più importante per Bonnie, molto di più di altri costosissimi gingilli marchiati.
Come poi abbiano fatto a ficcare tutto questo in un film di 100 minuti, resta un mistero. I personaggi sono senza dubbio uno dei punti forti del film. Oltre a Woody, Buzz e Bo Peep, ci sono tutte le vecchie glorie del franchise (Rex, Hamn, Mr. Mrs. Potato, Slinky, RC, Jessie…), a cui si aggiungono svariate new entry, ognuna della quale lascia un segno indelebile: dal perfetto duo comico Bunny e Ducky, i due peluche in premio al tiro al bersaglio del Luna Park, allo spassosissimo Duke Kaboom, lo stuntman motociclista del Canada che vanta la voce originale di Keanu Reeves; dalla tenera ma a tratti orrorifica bambola anni ’50 Gabby Gabby alle inquietanti marionette da ventriloquo al suo seguito, capitanate da Benson; senza scordarci di Forky ovviamente, formidabile motore comico della vicenda, ma anche simbolo di una diversità che verrà scandagliata e accettata nel corso della pellicola.
Svolta femminista per il personaggio di Bo Peep (assente nel terzo capitolo), la pastorella di porcellana che ritroviamo qui nei panni di una vera e propria badass a capo di una piccola e squinternata banda con la sua pecorella/cerbero a tre teste. Bo, ormai giocattolo smarrito e in quanto tale non appartenente più a nessuna bambina, realizza il cambiamento ben prima di Woody, che, legato al suo incrollabile senso di fedeltà, non riesce a concepire una vita senza un bambino di cui prendersi cura. Perché in fondo lo scopo di un giocattolo è quello, ripete ostinatamente il cowboy. La lealtà di Woody non si discute. Eppure pian piano nel suo cuore di pezza cominciano a maturare delle consapevolezze: “Aspetti di vederli crescere, di vederli persone adulte… e poi se ne vanno…“. Le cose cambiano. Inevitabilmente. E a volte quel cambiamento fa male. Ma, come diceva Laozi, quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla. Ogni fine è anche un nuovo inizio. La vita può mutare, ma è ancora vita. Toy Story 4 è lì a ricordarcelo. E lo fa in grande stile
Si tratta anche del capitolo più gotico della saga, quello più maturo, più cupo. La minaccia di diventare inutili, desueti e quindi l’incombenza della fine sono ovunque. Ma nel finale c’è un messaggio di speranza e di rinascita. Di evoluzione. Non tanto in stile Disney però, quanto in stile Pixar. Per fortuna. Sarà davvero l’ultimo capitolo stavolta? Non ci scommetteremmo. Il nuovo corso di Woody potrebbe dare vita a un nuovo (e sensatissimo) corso per l’intera saga. Chissà. Inevitabile, per noi italiani, avvertire la mancanza della voce di Frizzi (scomparso nel 2008 e doppiatore di Woody nei primi 3 film). Non a caso nei titoli di coda della versione italiana (e come se il finale del film non fosse già bastato a commuoverci) compare la scritta Grazie Fabrizio.