Jan Švankmajer è (purtroppo) un nome poco conosciuto in Italia, dove le sue opere non sono quasi mai state distribuite. Eppure il regista ceco, ormai ottuagenario, è riconosciuto a livello internazionale come vero e proprio genio del cinema surrealista (una specie di Buñuel slavo dell’animazione) e i suoi lavori in stop-motion sono stati fonte di ispirazione per celebri registi come Tim Burton e Terry Gilliam, tanto per fare i nomi più noti. Nel 2010 Švankmajer scrive e dirige il suo sesto lungometraggio, una “commedia psicoanalitica”, come lui stesso la definisce nel gustosissimo siparietto introduttivo, intitolata Surviving Life (Přežít svůj život).
TRAMA Evžen, un uomo di mezza età sposato con Milada e impiegato in un’azienda non meglio specificata, una notte fa un sogno in cui incontra una giovane e bellissima donna di nome Evženie di cui subito si innamora perdutamente. Da allora si ritrova a vivere una doppia vita: una reale, piuttosto scialba, l’altra immaginaria, decisamente più stimolante. Col passare del tempo, e grazie anche alle sedute psicoanalitiche a cui si sottopone, Evžen riuscirà a sciogliere il significato nascosto dietro alle sue visioni oniriche, immancabilmente legate all’infanzia e al rapporto coi genitori.
LA CONCEZIONE DI CINEMA DI SVANKMAJER Il tono parodistico della pellicola è evidente fin dal prologo, in cui uno Švankmajer versione cartoon definisce la sua opera come una “commedia psicoanalitica”, semplicemente perché in esso compare la figura di una psicoanalista, e informa gli spettatori che le scelte stilistiche del girato non derivano da alcuna velleità sperimentalistica ma sono legate a mere ristrettezze di budget; così come il suo intervento prolusivo non vuole soddisfare “un qualche inappagato narcisismo” né porsi come saccente metariflessione cinematografica, ma più semplicemente è un’aggiunta utile al metraggio della pellicola, la quale in fase di montaggio si era rivelata troppo breve. Dichiarazioni ironiche da cui però traspare un’idea precisa di concepire il cinema e l’arte in generale: il maestro praghese rinuncia, sbeffeggiandoli indirettamente, ai seriosi toni del cinema d’autore borghese attraversato da sofferte introspezioni e tormenti esistenzialistici. L’arte di Švankmajer non ama prendersi troppo sul serio. Ma se i toni della pellicola sono umoristici, altrettanto non si può dire del nucleo contenutistico, e la scelta di Evžen, che alla fine della pellicola rinnega la realtà e si rifugia nel sogno, è emblematica di un pessimismo di fondo senza speranza e, forse, di una fuga dalla realtà vagheggiata dallo stesso regista. Tutta la pellicola è in effetti attraversata dalla ferma volontà di Evžen di scappare dall’ordinato grigiore del reale per rifugiarsi nella debordante visionarietà del mondo onirico, l’unico luogo che, come ci dice lo stesso Švankmajer nell’incipit, non può essere “capitalizzato”, un (non-)luogo che può esistere solo nell’immaginazione. Il sogno è l’isola felice in cui il protagonista trova scampo dal piattume che lo attanaglia nella vita reale, una vita in cui Evžen svolge un lavoro tutt’altro che stimolante (non a caso lui e il suo collega si addormentano ripetutamente alla scrivania) e vive un matrimonio senza passione con una moglie poco attraente.
LA PSICOANALISI L’elemento psicoanalitico pervade tutta la pellicola, fra sedute psicoterapiche e una continua esplosione di immagini simboliche dall’inventiva impagabile, a dire il vero molto accurate (alcune semplici da decodificare, altre un po’ meno). Un intrico edipico estremamente complesso da cui trapela tutta la competenza psicoanalitica di Švankmajer. E nel commovente e atroce viaggio a ritroso nella psiche del protagonista che dovrà fare i conti col dolore delle sue rimozioni finalmente venute a galla (il suicidio della madre in primis) si scorge un vero e proprio percorso umano di catarsi e riscoperta di se stessi. Meraviglioso e disturbante allo stesso tempo il finale in cui Evžen torna bambino e impara finalmente a nuotare nell’acqua resa rossa dal sangue che sgorga dalle vene tagliate della propria madre/AMANTE. Fra le altre, restano impresse le scene delle sedute dalla psicoanalista e gli esilaranti siparietti a cui danno vita i ritratti di Freud e Jung, i quali prendono vita (in pieno stile švankmajeriano) e partecipano attivamente allo svolgimento delle sedute annuendo, applaudendo, disapprovando e, soprattutto, dandosele di santa ragione.
LO STOP MOTION Švankmajer, inventore di surreali mondi perennemente sospesi fra natura orrorifica e fanciullesca, mescola nel film lo stop motion con fotografie, disegni, scene dal vivo e sovraimpressioni, plasmando un metodo narrativo unico. Surviving Life può essere considerato un vero e proprio compendio del suo cinema: surreale, ironico, sperimentale, erudito, accuratissimo. Un’opera “squisitamente minore” in cui si ritrovano tutti i fondamenti della sua poetica: il surrealismo che squarcia il quotidiano, confondendo il piano del sogno e quello della realtà; il fitto tessuto simbolico che attraversa tutto il girato; gli oggetti inanimati che prendono vita all’improvviso; l’insistenza sul cibo e sulle bocche che producono sempre suoni esasperati; l’accelerazione di molte sequenze.
Un film in cui Švankmajer sembra aver messo molto di sè stesso, non ultima la dolorosa elaborazione del lutto dell’amata moglie Eva Švankmajerová. Ennesimo gioiello sfornato dal maestro del cinema praghese, misconosciuto qui da noi, a dimostrazione che, se lui è ceco, il Belpaese è cieco.