Un tormento che non trova pace neanche alla fine, dopo la morte.
Tormento, rabbia, disperazione, sono il pane quotidiano degli uomini crocifissi dalla vita ai quali non è stata concessa neanche una morte in cui riposare in pace.
Un riposo negato anche ai familiari di Stefano Cucchi, il giovane ucciso dall’odio legittimato da una divisa e lasciato morire da chi aveva il dovere di salvarlo.
Ma la cosa che ferisce di più non è la sentenza burocratica del Tribunale che per lavarsi le mani, ha assolto tutti, sulla base di una ricostruzione freddamente tecnica dell’accaduto:
Il ragazzo sarebbe morto non in seguito alle percosse ma per morte naturale, ossia per denutrizione.
Quindi per insussistenza del fatto.
La sentenza non dovrebbe sorprendere, in quanto la colpa e l’innocenza non sono stati mai ammessi a testimoniare in alcun processo.
Contano i fatti visibili, quelli misurabili, quantificabili.
In base a questa logica, elevare una sentenza a un caso di coscienza, sembra quasi ridicolo, in una società che divide i cittadini in due categorie: quelli di serie A e quelli di serie B.
Era già tutto previsto.
Perché l’esito di questa tragica storia fa pensare ai tanti deboli della società che vengono umiliati da chi abusa del proprio potere. E tutto alla presenza muta delle istituzioni.
Sono cose che accadono tutti i giorni
Perché indignarsi e disperarsi per una sentenza annunciata contro chi non ha armi per difendersi?
Sarebbe il caso di indignarsi per i modelli culturali che legittimano queste barbarie.
Quel modello espresso da una dichiarazione, che è tutto un programma: “Un tossicodipendente, deve aspettarselo prima o poi di finire così”. Vale a dire: se l’è cercata.
La cosa peggiore è che questa storia venga considerata come la cronaca di una morte annunciata da un sistema culturale che non ha pietà di quelli che soffrono, per l’appunto dei cittadini di serie B