“Shutter Island”: la fuga mentale di un uomo perbene

di Felice Sangermano

Martin Scorsese non è un nome qualunque nel panorama cinematografico, tanto quello americano quanto quello mondiale. Ultimamente chiacchierato più per le critiche mosse al mondo dei cinecomic che non per i suoi film (ricordiamo, fra l’altro, che è appena uscito The Irishman, il suo ultimo lavoro, di cui vi consigliamo caldamente la visione), il povero Martin è stato messo alla gogna da molti fan(atici) dei cinecomic che ne hanno parlato come di un vecchietto dalle idee cinematografiche superate e incapace di adeguarsi al moderno.

Noi qui, per evitare di venir meno alla netiquette, svicoliamo abilmente dalla spinosa querelle e torniamo semplicemente a parlare dei suoi film, che ci sembra la cosa migliore da fare. E dunque, ecco Shutter Island, pellicola del 2010 basata sull’omonimo romanzo del 2003 di Dennis Lehane, tradotto in Italia con L’isola della paura.

TRAMA 1954. L’agente federale Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio), sbarca a Shutter Island, un’isoletta al largo del New England riadibita a manicomio criminale, per investigare sulla scomparsa di una detenuta avvenuta in circostanze misteriose. Ma qualcosa, fin da subito, sembra non quadrare, e nel corso delle indagini Teddy, sempre più vittima di emicranie e incubi ricorrenti, arriva alla conclusione che i dottori dell’Ashecliff Hospital, nascondendosi dietro la facciata di ospedale psichiatrico criminale, conducano in realtà segreti e disumani esperimenti sull’essere umano. Ma è davvero così? In un crescendo di claustrofobia e paranoie, Daniels alla fine scoprirà un’altra verità. Molto dura — forse troppo — da mandare giù.

Sembra che i romanzi di Lehane, famoso scrittore americano di thriller e insegnante di Scrittura Creativa all’Università di Harvard, rappresentino un ottimo materiale per trasposizioni cinematografiche. O almeno così la pensano, oltre a Scorsese, anche Clint Eastwood, che nel 2003 ci ha tratto uno dei suoi film migliori, Mystic River, e Ben Affleck, che ne ha addirittura ricavato due pellicole, Gone Baby Gone del 2007 e Live by Night del 2016.

Shutter Island, rispettando lo spirito del romanzo originale, si presenta come un thriller psicologico, capace di dosare sapientemente azione e momenti di riflessione, senza mai annoiare. La storia ha un impianto narrativo classico: si parte da un enigma e si procede a un’indagine piena di indizi rivelatori (che diventeranno lampanti solo a una seconda visione), fino ad arrivare a una soluzione che ribalta completamente i ruoli: il vero pazzo è proprio Teddy, in fuga dalla dolorosa verità, mentre quelli che sembravano mostruosi scienziati neonazisti sono in realtà solo delle persone che stanno cercando in tutti i modi di aiutarlo.

Curatissima la dimensione estetica della pellicola (basti dare un’occhiata alle splendide sequenze oniriche e a quelle del massacro a Dachau). Ogni elemento concorre alla creazione di atmosfere cupe e angosciose: la fotografia (Robert Richardson) e le scenografie (Dante Ferretti) ricche di suggestioni gotiche, i claustrofobici movimenti di macchina che restituiscono un senso sconfortante di incombenza e minaccia. Il tutto impreziosito da efficaci simbologie (buie strutture labirintiche, scale a chiocciole, il faro…) e citazioni continue, e cadenzato da un ritmo narrativo in continuo crescendo, fino all’agnizione finale.

Al di là dell’intrattenimento tipicamente thriller, molti e profondi sono gli spunti di riflessione. L’indagine svolta da Teddy è in realtà un viaggio all’interno della mente di un uomo in fuga da un dolore insostenibile per negare il quale si costruisce una visione alternativa della realtà in cui le cose sono andate diversamente. È il suo modo per andare avanti: rifugiarsi nella menzogna, perché la verità è troppo amara da accettare e il senso di colpa annientante. La schizofrenia sopraggiunge come meccanismo di difesa e non come malattia indipendente. E il pensiero, fra i tanti, corre subito al Cleg cronenberghiano di Spider (di cui abbiamo parlato qui).

Ma la “cura” prevede che Teddy prenda consapevolezza della realtà, senza più rifuggirla nella sua mente. E quando i dottori, pur animati dal sincero scopo di aiutarlo, riescono a sradicarlo da quella trama finemente intessuta di paure e menzogne, Teddy riconoscerà l’agghiacciante verità, ma la reputerà inaccettabile, fingendosi ancora malato per sottoporsi a un intervento di lobotomia che lo “liberi” una volta per tutte dalla sofferenza, così come Dolores aveva trovato libertà nella morte. Perché in fondo è meglio morire da uomo perbene piuttosto che vivere come un mostro.

Interpreti straordinari, a partire da Leonardo Di Caprio, la cui evoluzione artistica verso una dimensione più impegnata diventa sempre più evidente pellicola dopo pellicola, passando per Mark Ruffalo (partner/psichiatra di Teddy), Ben Kingsley (il dott. John Cawley), Max von Sydow (dott. Jeremiah Naehring), Michelle Williams (Dolores, la moglie di Teddy), fino ai ruoli minori ma incisivi di Elias Koteas (falso Andrew Laeddis) e di Ted Levine (Warden).

Ancora una volta il regista newyorchese conferma di essere uno dei cineasti di maggior talento del panorama attuale. Altro che vecchietto arrugginito. Per il vostro bene, fareste meglio a guardare qualche cinecomic in meno e qualche Scorsese in più.

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