Seid Visin non è morto di morte naturale ma si è suicidato. All’inizio si parlava di malore ma a porre fine alla vita del giovane ex calciatore etiope c’è stato un atto autonomo e intenzionale. La tragica notizia è stata confermata dal Corriere della Sera che ha anche pubblicato alcuni stralci di una lettera molto pesante del 2019. Alla base del suicidio del 20enne ex calciatore delle giovanili di Milan e Benevento non sarebbero ancora chiari i motivi, la famiglia ha sottolineato che non è stato il razzismo ad ucciderlo. Dopo due anni, però, quelle parole rilette ora in chiesa al suo funerale sono un pugno nello stomaco. Seid sin da piccolo aveva inseguito il sogno di diventare calciatore e si era fatto notare col Milan ma poi, probabilmente per nostalgia, si era avvicinato ai genitori adottivi di Nocera Inferiore andando a giocare nel Benevento. Da alcuni anni aveva deciso di lasciar perdere il calcio e divertirsi con una squadra di calcio a 5, l’Atletico Vitalica. Pochi giorni fa, purtroppo, l’insano gesto. Ecco come raccontava, in una lettera, il giovane Seid il suo stato d’animo poco meno di due anni fa:
Sono stato adottato da piccolo. Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto. Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani non trovassero lavoro. Dentro di me è cambiato qualcosa. Come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco. Facevo battute di pessimo gusto su neri e immigrati. Come a sottolineare che non ero uno di loro. Ma era paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati. Non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente vita.