“Rollerball”: un film distopico sulla libertà di ribellarsi al sistema

di Vittorio Paolino Pasciari

Rollerball è un film di genere distopico del 1975 diretto da Norman Jewison che ha per interpreti principali James Caan (Jonathan E.), John Houseman (Bartholomew), Maud Adams (Ella), John Beck (Moonpie), Moses Gunn (Cletus), Shane Rimmer (manager della squadra), Alfred Thomas (allenatore della squadra), Pamela Hensley (Mackie), Barbara Trentham (Daphne) e Ralph Richardson (il bibliotecario). La pellicola è tratta da un racconto breve, intitolato The Rollerball Murders, pubblicato sulla rivista Esquire e scritto dall’autore Bill Harrison che nel 1974 ha ricevuto una nomination al premio Pulitzer per il libro di racconti che include il suddetto racconto breve.

LA TRAMA. Anno 2018. Nel mondo non esistono più nazioni, guerre, crimini. I governi sono sostituiti da un’unione di Corporazioni dirette da Dirigenti che controllano capillarmente la vita di tutto il pianeta, pur soddisfacendo sempre il bisogno di benessere di tutta la popolazione. In un mondo dove tutto è governato dalle Corporazioni c’è anche il Rollerball. Questo barbaro e sadico ‘sport’ è l’unico sfogo per la rabbia repressa e le frustrazioni delle masse. Trasmesso per la televisione, la gente segue questa brutale fusione-evoluzione di rugby, motocross e hockey : due squadre composte da corridori in pattini a rotelle e in motocicletta si affrontano all’interno di una pista circolare, con lo scopo di centrare con una palla d’acciaio una buca magnetica. Jonathan E., il capitano della squadra campione in carica di Houston, è un carismatico giocatore che da più di dieci anni guida il team in uno sport dove per un giocatore due o tre anni costituiscono il massimo della carriera. Jonathan ha troppo talento per poterne trarre vantaggio. La Corporazione gli ha portato via la donna che ama, Ella, in quanto piaceva ad un dirigente. Dopo un’altra vittoria gli viene comunicato da Arnold Bartholomew, un importante dirigente della “Energy”, facente parte del consiglio direttivo incaricato di prendere tutte le decisioni, che hanno deciso che lui si ritiri dal gioco. In un percorso fatto di intrighi e di privazioni, il campione non permetterà al sistema dentro cui si muove di rubargli l’anima, nonostante il diabolico e sadico Bartholomew gli consigli di ritirarsi.

Un mondo in cui una pace apparente ed un relativo benessere sono garantiti a patto di controllare con la forza, fisica o psicologica, ogni elemento della vita umana è un contesto tipico del genere distopico. In questo tipo di letteratura, e di Cinema, si tende a mostrare un’umanità che vive un’esistenza che sembra priva di alternative e dove pace e benessere corrono di pari passo con oppressione e violenza. Ma poi un determinato personaggio, il più improbabile, a volte proprio uno di quelli che sembravano più a loro agio in questo modo di vivere, o addirittura uno fra quegli stessi fautori del forzato equilibrio, si eleva in questo clima di apatica accettazione e comincia a voler riscoprire e difendere la propria libertà di scelta, andandosi inevitabilmente a scontrare con una fine che sembra inevitabile. Ma proprio questo è l’insegnamento di fondo celato sotto un pessimismo schietto che però non è mai fine a sé stesso. Basta uno solo che metta in discussione il Sistema che sembrava solo in apparenza incrollabile, per svelare le fragili, e patetiche, fondamenta che si nascondono dietro ogni genere di dittatura. Un vertice in grado di fornire quel benessere che, triste ma vero, nella realtà spesso viene preferito ad una vita sudata ma autentica, è condizionato dalla stessa paura usata come strumento di oppressione per mantenere il potere. Testimonianza, reale o fittizia, di questa verità la possono dare gli innumerevoli atti di censura (roghi di libri, distruzione di opere d’arte, limitazione della libertà di stampa, manipolazione dell’informazione ecc.) che hanno per scopo rendere l’uomo sempre più appagato, ma allo stesso tempo sempre più incapace di agire con mente libera e cosciente.

L’espediente di uno sport nella sua forma più brutale per mantenere il controllo sulle emozioni e frustrazioni della gente se da un lato può richiamare alla mente i gladiatori dell’antica Roma, dall’altro può far ricordare al pubblico odierno una trilogia che ha in un certo senso riportato in auge, nella letteratura prima e nel celluloide dopo, il genere distopico: Hunger GamesTuttavia, se nella storia di Suzanne Collins assistiamo ad una crescita interiore forzata della protagonista Katniss Everdeen (una bellissima e bravissima Jennifer Lawrence nei film), dove parte rilevante ha anche l’amore, con l’antieroe Jonathan E. la storia si fa più drammatica. Non c’è l’amore, seppur citato per poco, a guidare il protagonista nella sua battaglia contro un Sistema opprimente e contro emozioni contrastanti che fanno emergere la sua fragilità quando deve rinunciare a malincuore alla donna che ama o quando perde il suo migliore amico, ennesima vittima della brutalità dello sport e della Corporazione. L’antieroe è spinto da un naturale senso di rivalsa contro un Sistema in cui lui è comunque coinvolto, quando non esita a sfruttare una violenza mortale nelle ultime due partite. E, nella carneficina della partita con cui si chiude il film, memorabile ed emblematica è la scena in cui Jonathan, ferito ma in piedi, unico giocatore sopravvissuto, segna il punto della vittoria: i Dirigenti non possono fare altro che lasciare le tribune sconfitti, allo stesso tempo la folla, forse per l’ultima volta, scandisce trionfalmente il nome del protagonista come presagio di un futuro migliore. E le note di Back, Toccata e fuga in Re Minore, con cui si apre e si chiude il film sono un colpo da maestro che rende meglio la perfezione della storia.

 

La corsa finale di Jonathan E. con il pubblico che scandisce il suo nome

Con il suo stile incisivo ed un ritmo pericoloso, questo film trascina gli spettatori in un’emozionante ed agghiacciante visione di un futuro in cui l’aggressività umana si scatena su una pista estremamente violenta, senza esclusione di colpi. Il gioco in crescendo, in cui la posta è sempre più alta ed il rispetto per la vita umana sempre più basso, è sicuramente inusuale per l’epoca. Nonostante l’esito del gioco, la folla degli spettatori rimane tranquilla, l’euforia è scomparsa. Jonathan E. ha vinto molto più che titoli ed onori, ha conquistato un nuovo futuro per sé stesso e per tutti gli altri.

All’uscita del film il pubblico si precipitò a vedere questa spettacolare interpretazione del futuro, lasciandosi appassionare dalla lotta dell’antieroe Jonathan E.  Con un incasso alla sua uscita di più di 30 milioni di dollari e grazie all’emozionante interpretazione dei suoi attori, sia dentro che fuori dal campo di gioco, questo film offre la più creativa e tecnologica visione del futuro dopo 2001: Odissea nello spazio. Alcuni critici hanno accusato la pellicola di correre sul filo del rasoio, passando la sottile linea che divide la retorica anti-violenza dal tipo di pericoloso divertimento che denuncia. Mentre i più sono rimasti impressionati dalla visione che il regista Norman Jewison dà di un destino controllato dalla corporazione e della sua manipolazione dell’aggressività umana, alcuni si sono invece opposti alla violenza contenuta nel film. Jewison, che ci ha abituato ad opere cinematografiche controverse e polemiche (Jesus Christ Superstar, I mastini della guerra e Agnese di Dio), ha quindi dovuto difendere il tema, se non addirittura il genere di Rollerball. Secondo lui non c’è neppure una scena gratuita, anzi il film intero è una denuncia contro la violenza. Il regista ha affermato che è impossibile parlare di violenza senza mostrarla. E invero, un’altra parte della critica considera Rollerball un film singolare e stimolante, abilmente congegnato, esaltandone l’avvincente regia, la brillante sceneggiatura e la straordinaria interpretazione di James Caan.

Una nota a parte merita l’interprete principale che si dimostra capace di dare un certo spessore ed un’umanità combattuta al protagonista dopo aver già conquistato la consacrazione, tre anni prima, in quello che forse rimane il suo personaggio più celebre, ovvero Santino ‘Sonny’ Corleone, il rabbioso e violento primogenito di Don Vito Corleone (nomination all’Oscar ‘Miglior attore non protagonista’) diretto da Francis Ford Coppola ne Il Padrino.

Una delle caratteristiche del genere distopico è la sua eterna attualità. In qualunque periodo la storia venga ambientata, i temi affrontati risultano sempre una denuncia rivolta alla realtà in cui il libro e il film sono stati prodotti e, soprattutto, a quella dei lettori e spettatori che verranno. La violenza estrema, che sia fisica o psicologica, in queste narrazioni non è mai fine a sé stessa ed una mente ed un cuore ben istruiti ad andare oltre l’apparenza possono sempre apprezzare la validità degli insegnamenti intrinseci di autori come Ray Bradbury e Anthony Burgess capaci di creare storie brillanti (Fahrenheit 451 e Arancia Meccanica) e di registi come François Truffaut e Stanley Kubrick che, grazie alla loro genialità unita ad interpretazioni impeccabili, hanno fornito suggestive trasposizioni (i due film omonimi usciti rispettivamente nel 1966 e nel 1971) degne delle pagine originali. In questo novero di Classici da riscoprire va inserito a pieno diritto Norman Jewison che con questo nuovo e suggestivo prodotto chiarisce ancora una volta il concetto di quanto patetico sia un governo che si prefigge di sottomettere la volontà dell’uomo che, se solo accettasse la paura per non lasciarsi sopraffare da essa, può superarla per essere libero.

Il film ha avuto un remake omonimo nel 2002 diretto da John McTiernan dove nel cast spicca il bravissimo Jean Reno nel ruolo del cattivo. Questa versione si concentra più sull’azione, a scapito della denuncia politica, ed è risultato un flop di critica e di botteghino. In casi come questi è il caso di dirlo: L’ORIGINALE NON SI BATTE!

 

 

 

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