Perchè la riduzione dei parlamentari non farà bene al Parlamento

di Francesco Mazzocca

A fine marzo, se non ci fosse stata l’emergenza Coronavirus, si sarebbe svolto il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. E’ probabile che il sì avrebbe vinto, sulla base della motivazione puramente finanziaria del risparmio pubblico: il taglio dei parlamentari è stato sponsorizzato esclusivamente sotto la veste economica, mentre gli aspetti strutturali di sistema sono stati volutamente non menzionati. Perché da questo punto di vista la riforma non ha mai presentato vantaggi, in quanto non tiene conto di una serie di conseguenze che dovevano essere valutate non solo a priori, ma anche affrontate contestualmente alla riduzione dei rappresentati: il provvedimento infatti comporta diverse conseguenze, come la revisione dei quorum per una serie di elezioni, la rivisitazione delle circoscrizioni elettorali, la riduzione della rappresentanza per cittadino, la modifica dei regolamenti parlamentari.

Qualcuno ha provato, anche goffamente, a inserire argomentazioni differenti da quella puramente economica, fallendo: l’attuale Ministro degli Esteri, per esempio, parlò della riduzione dei parlamentari come soluzione alla riduzione degli emendamenti, e quindi una velocizzazione delle procedure legislative, dimenticando però che nei regolamenti parlamentari non esiste nessuna norma che impone un limite massimo al numero di emendamenti presentabili da ciascun parlamentare. Tanto per dirne una, la velocizzazione delle procedure legislative dipende dalla calendarizzazione dei lavori parlamentari: se il Parlamento vuole, decide, anche in brevissimo tempo, nel rispetto delle normali tempistiche previste appunto dai regolamenti e dei poteri che l’ordinamento gli conferisce (grottescamente, la critica di Jean Louis De Lolme agli eventuali poteri sconfinati del Parlamento si riassume nella famosa frase “Il parlamento può fare tutto, tranne che trasformare una donna in uomo e un uomo in una donna“, 1771).

La motivazione portante di questa riforma può essere l’esempio di una politica populista che si lega agli slogan altisonanti, per i quali la forma vale più della sostanza, ma non è sostanza, anzi la sconfessa. Proprio in periodo di emergenza, infatti, l’aspetto della tenuta economica è quanto mai principale: si sarebbe ottenuto molto di più, per esempio, se al posto della riduzione del numero dei parlamentari fosse stata proposta una riduzione dell’indennità dei singoli parlamentari. Il vantaggio sarebbe duplice: quello di carattere economico, per il quale il risparmio sarebbe stato sicuramente maggiore rispetto a quello ottenuto dalla riduzione del numero dei parlamentari; quello di sistema, istituzionale, evitando innanzitutto una inutile riduzione della rappresentanza democratica per i cittadini, e soprattutto non attuando la sconsiderata operazione di approvazione di singolo un provvedimento, che incide fortemente su aspetti strutturali, avulso da riforme il cui accompagnamento sarebbe stato fondamentale per una revisione organica. In questo aspetto, per esempio, la riforma costituzionale del 2016, nella quale le negatività superavano le cose buone, aveva un senso d’insieme ed era stata studiata in maniera totale, abbracciando diversi aspetti del sistema.

Il populismo di questa riforma è semplicemente un “mandiamoli a casa”, “troppi privilegiati”, ecc. Si può sicuramente condividere lo squilibrio, in termini di retribuzione, tra chi riveste lo status di parlamentare e qualsiasi altro dipendente pubblico, perché il rapporto di lavoro del parlamentare è qualificato da alcuni autori come “rapporto temporaneo di pubblico impiego”. Ed è giusto riflettere su questo aspetto. Ma riducendo il numero dei parlamentari non si risolve molto, e in termini di libertà di scelta il rappresentato avrà ancora più svantaggi: riducendo il numero dei parlamentari si riduce il ventaglio della rappresentanza, perché il rapporto rappresentanti/rappresentati si assottiglia.

I partiti saranno costretti a fare una selezione, all’interno delle proprie liste, che li trasformerà ancora di più in caste inaccessibili composte da elementi scelti, sicuramente, non per la loro competenza ma per la capacità, ancora più necessaria, di essere raccoglitori di consenso, in un rapporto inverso rispetto a quello precedentemente indicato: meno parlamentari, più voti da racimolare per il singolo; inoltre, sempre in termini di libertà di scelta, non bisogna dimenticare che l’attuale legge elettorale non lascia la possibilità all’elettore di scrivere il nome del candidato che si vuole votare, e quindi la riduzione della proposta elettorale delle singole liste restringe ancora di più la possibilità di scegliere. Anche riducendo il numero dei parlamentari, continuerà ad esistere quello che Pasquino definisce “deficit democratico”, ovvero l’unione tra le ridotte possibilità di partecipazione che un sistema offre ai suoi cittadini e la non rispondenza delle decisioni prese dalle élite politiche rispetto alle esigenze della società. Anzi, proprio per le ragioni indicate, il deficit non solo continuerà a viaggiare, ma sarà ancora più evidente nel funzionamento delle strutture partitiche.

La riduzione del numero dei parlamentari non è la ricetta per smussare le lacune nel funzionamento dei meccanismi costituzionali, né determina un miglioramento visibile delle condizioni di vita dei cittadini: non velocizza le procedure parlamentari, non elimina l’ostruzionismo (per chi pensa ancora al rapporto direttamente proporzionale tra numero dei parlamentari e presentazione degli emendamenti), non migliora la qualità legislativa, riduce la rappresentanza del cittadino sia come rapporto con i rappresentati che come libertà di scelta all’atto delle elezioni. E, infine, stando all’unica motivazione che promuove la riforma e che viene fortemente sponsorizzata dagli ambienti populisti, non comporta nemmeno un risparmio economico tangibile per il singolo cittadino: il costo di “tre al caffè al giorno” non vale un pasticcio di tal fatta.

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