“Pulp Fiction”: Tarantino filma il manifesto di un genere

di Felice Sangermano

Prima di tutto, cos’è il pulp? Il pulp è un genere letterario di consumo che propone contenuti forti ed esasperati: violenza, crimini, sesso, sangue e chi più ne ha più ne metta. Esempi di scrittori pulp sono l’italiano Niccolò Ammaniti e lo statunitense Chuck Palahniuk. Ma il pulp non resta confinato alla sola letteratura, travalicando anche nel mondo del cinema, dove lo scettro del genere spetta a un certo Quentin Tarantino. L’associazione è così forte e riconosciuta che ormai il termine tarantiniano è diventato sinonimo di pulp.

Era il 1994. Tarantino, all’epoca giovane cineasta con alle spalle un solo (ma già notevole) lungometraggio (Le iene, 1992) girava quello che da molti è considerato il suo capolavoro o comunque il film più rappresentativo, nonché vero e proprio manifesto cinematografico del genere pulp: stiamo parlando ovviamente di Pulp Fiction. Che piaccia o no (e in genere piace), siamo di fronte a una pagina imprescindibile della storia del cinema (e non solo per la Palma d’oro al festival di Cannes del 1994 e l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 1995). Ma cerchiamo di capire il perché.

TRAMA  La trama, suddivisa in capitoli, vede intersecarsi in maniera labirintica le storie di diversi personaggi: i due balordi rapinatori alla tavola calda Zucchino e Coniglietta; i due sicari Jules e Vincent al soldo di Marsellus Wallace; la moglie ero/cocainomane di Marcellus, Mia Wallace; il pugile corrotto Butch e la sua fidanzata Fabienne.

Come in tutti i film di Tarantino, la trama interessa solo fino a un certo punto. Non che le vicende messe in scena siano banali, anzi, ma è più che altro il modo in cui queste vicende si dipanano a farci rizzare i peli. Il modo di narrare. O, in una parola, lo stile. Che in Tarantino, come in tutti i grandi autori, prevale sul contenuto. Tarantino può parlare di niente, ma farlo in maniera splendida e sempre avvincente. In Pulp Fiction assistiamo a uno sgretolamento della consueta logica narrativa. Ne risulta una struttura filmica frammentata, eppure non dispersiva. Le vicende dei personaggi si intrecciano continuamente tra loro in una cronologia non consequenziale. Vero e proprio maestro nello sfasamento dei piani temporali (caratteristica saccheggiata dagli autori a venire), Tarantino riesce a tenere le fila di tutto senza mostrare affanni. I dialoghi sono spassosissimi, insoliti, iperrealistici, quasi surreali, sempre brillanti anche quando si parla dell’inconsistente (vera e propria specialità del maestro). Le citazioni, altro marchio di fabbrica del regista, si sprecano (come i riferimenti al cinema d’exploitation degli anni Settanta e Ottanta).

Noir, gangster movie, drammatico, thriller. In perfetto canone pulp, il cinema di Tarantino ricerca l’eccesso, che sembra aspettare acquattato nella quotidianità, pronto a balzare fuori da un momento all’altro: da situazioni più o meno ordinarie si sfocia sempre nell’inverosimile e nel grottesco. Il passaggio è tanto travolgente quanto sciolto. Nessuno protesta, tutto sembra scorrere con naturalezza. Gli occhi rimangono incollati allo schermo, assuefatti dalla visione. Lo spettatore è completamente rapito. I film del regista di Knoxville si bevono in un sol sorso.

Tarantino non lesina mai sullo splatter, ma esso è messo in scena in maniera così iperrealistica da risultare innocuo, se non addirittura comico. Perfino i crimini e le efferatezze peggiori finiscono per suscitare ilarità piuttosto che ribrezzo o orrore. Personaggi, dialoghi, luoghi, situazioni: tutto appare così fumettoso e cartonesco da non risultare mai disturbante. La violenza è maneggiata come puro soggetto estetico che non predica alcun tipo di morale o messaggio particolare. Tarantino è interessato solo «all’atto, all’esplosione e alla sua conseguenza». Vuole mostrarci come la più cruda ferocia possa esplodere improvvisamente e follemente dalle più convenzionali delle situazioni. Ciò che lui chiama la «quotidiana banalità della violenza». Essa lacera lo schermo, ma poi rimane lì, davanti allo spettatore. Non ci sono tagli sulla scena successiva. «In Pulp Fiction restiamo a vedere come i personaggi reagiscono di fronte alle conseguenze dei loro atti».

Nel cast, ricchissimo di nomi illustri, numerose furono le prove acclamate dalla critica. In particolare il film permise di rilanciare la carriera di John Travolta (finito da qualche anno nel dimenticatoio) grazie alla sua interpretazione del gangster pulp Vincent Vega e in particolare alla scena del ballo al locale Jack Rabbit Slim’s, in cui Travolta tornò a danzare sul grande schermo ad anni di distanza dai musical che lo resero celebre. Fra gli altri attori che parteciparono alla pellicola vi furono Uma Thurman (che trovò la sua definitiva consacrazione proprio grazie alla pellicola), Samuel L. Jackson, Tim Roth, Ving Rhames, Rosanna Arquette, Bruce Willis, Christopher Walken e Harvey Keitel, oltre a un cameo di Steve Buscemi.

La pellicola trabocca di sequenze memorabili. Ne citiamo alcune in ordine sparso: il monologo biblico di Jules, la siringa di adrenalina nel petto di Mia, il succitato ballo tra lei e Vincent al Jack Rabbit Slim’s sulle note di You never can tell di Chuck Berry, l’episodio della sodomizzazione nel retro del negozio dei pegni, quella in auto in cui Vincent esplode involontariamente un colpo di pistola in faccia al povero Marvin e ovviamente tutte quelle in cui compare il cinico e divertentissimo Mr. Wolf.

Splendida la colonna sonora che accompagna coerentemente tutte le scene, spaziando dal rock al blues, passando per il funk e la particolarissima surf music.

Una curiosità: il film contiene uno dei più celebri MacGuffin della storia del cinema. Per chi non lo sapesse, un MacGuffin non è altro che un pretesto che funge da motore per la storia. Esso richiama l’attenzione dello spettatore ma non ha un’importanza cruciale in sé. Il MacGuffin di Pulp Fiction è rappresentato da una valigetta (la cui combinazione è 666, il Numero della Bestia) che Vincent e Jules devono recuperare. Per tutto il film non si conosce il contenuto della valigetta: si sa solo che chi guarda al suo interno rimane abbagliato da una luce calda e sgrana gli occhi dallo stupore. Sebbene lo stesso Tarantino abbia sempre tagliato corto a proposito, sottolineando la natura puramente pretestuale del MacGuffin, negli anni sono state avanzate le ipotesi più disparate sul contenuto della valigetta, da quelle più comuni, come diamanti o oro, ad altre piuttosto stravaganti e azzardate, come il vestito dorato di Elvis, l’anima di Marsellus Wallace, il fascino della violenza o anche l’interiorità maschile. Roger Avary, collaboratore alla sceneggiatura, ha rivelato che inizialmente la valigetta avrebbe dovuto contenere i diamanti del colpo de Le Iene, ma l’idea fu in seguito accantonata perché ritenuta poco originale, e si decise di non mostrare mai direttamente il contenuto della valigetta, ma solo la misteriosa luce ambrata che esso restituiva (merito di una semplice lampadina arancione). La definizione migliore a proposito del misterioso e tano chiacchierato contenuto della valigetta sembra essere in definitiva quella rilasciata dallo stesso Tarantino nel corso di un’intervista del 2003: «È qualunque cosa lo spettatore voglia che sia».

Film epocale, capace di reinventare un genere e assurgere fin da subito a icona del cinema moderno. Pulp Fiction forgiò un’intera generazione di registi, influenzando marcatamente la cinematografia successiva e imponendo Tarantino, all’epoca trentunenne, come uno dei nomi più importanti della scena cinematografica mondiale. Non a caso Peter Bogdanovich, uno che non è nato ieri, ha definito Tarantino come «il più influente regista della sua generazione».

Difficile trovare qualcuno che non abbia visto Pulp Fiction. Quei pochi, be’, corrano subito ai ripari.

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