Sei mesi di proteste in Iran: la rivoluzione silenziosa delle donne

di Luisa Sbarra

In Iran si è giunti al sesto mese di proteste. Nelle ultime settimane si erano attenuate, ma da pochi giorni hanno ripreso in maniera più intensa contro l’autorità del regime islamico. Foto e video mostrano infatti manifestazioni attive e cori dei dimostranti contro l’Ayatollah Ali Khamenei a Teheran, ad Arak, Isfahan, Izeh, e Karaj. La situazione degenera sempre di più, soprattutto dopo la diffusione della notizia dell’avvelenamento di alcune studentesse.

Sembrerebbe che, pur di non consentire l’accesso alle studentesse all’istruzione, ignoti le abbiano con dei gas. Sarebbero circa 650 le studentesse coinvolte dal mese di novembre. Nessuna di loro avrebbe perso la vita, ma avrebbero riportato problemi respiratori, nausea, vertigini, episodi di confusione ed astenia per alcune settimane. Le ultime 35 alunne trasportate in ospedale per questo motivo sono della scuola femminile ‘Khayyam’ della città di Pardis, situata nella provincia di Teheran. Casi analoghi anche nelle città di Qom, Ardebil, Boroujerd e Sari. Tutte le scuole interessate, in seguito a questi episodi, sono state chiuse. I genitori sono terrorizzati e hanno paura di mandare le proprie figlie a scuola.

L’agenzia di stampa ‘Irna’ ha riferito che il viceministro della salute, Youness Panahi, ha implicitamente confermato che l’avvelenamento è stato intenzionale dichiarando: “È emerso che alcuni individui volevano che le scuole, soprattutto quelle femminili, fossero chiuse”. I ministeri dell’Intelligence e dell’Istruzione si sono limitati a dire che stanno collaborando per ricostruire i fatti. Quello che sta accadendo in Iran sembra molto simile a quanto stato fatto dai talebani in Afghanistan, vietando l’istruzione alle donne, sebbene non si sappia ancora chi ne sia il colpevole. Tutto ciò si aggiunge alla già difficile situazione presente dalla morte di Mahsa Amini.

Durante la 73esima edizione del Festival di Sanremo, è apparsa sul palco la scrittrice e attivista iraniana Pegah Moshir Puor, costretta all’età di 9 anni ad abbandonare con la sua famiglia il suo Paese per recarsi in Basilicata, al sicuro dalle forti repressioni del regime islamico di quel tempo. Sostenendo la campagna “Donne senza Voce”, aveva esposto in un suo incisivo monologo la situazione: “In Iran non sarei potuta essere così vestita e truccata, e non avrei potuto parlare di diritti umani da un palcoscenico. Sono parole un po’ forti, sarei stata arrestata, o forse addirittura uccisa e, per questo, come molti ragazzi e ragazze del mio paese ho deciso che la paura non ci fa più paura, e di dare voce a una generazione cresciuta sotto un regime di terrore e di repressione, in uno dei Paesi più belli al mondo, uno scrigno dei patrimoni dell’umanità. La parola paradiso deriva dall’antico termine persiano pardis, giardino protetto. Allora io vi chiedo se esiste un paradiso forzato. Ahimè, sì. Come si può chiamare un posto dove il regime uccide persino i bambini? Dal 16 settembre 2022, da quando Mahsa Amini, colpevole solo di essere sospettata di portare in maniera non corretta il velo, è stata uccisa dalla polizia morale, il popolo iraniano sta sacrificando con il sangue il diritto a difendere il proprio paradiso”.

Da allora è passato un mese e continuano a perdere la vita donne, uomini e bambini per conquistare la loro “normalità” e quel “paradiso” sembra essere sempre più lontano.

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