“Non si sevizia un paperino”: il cult del giallo Made in Italy

di Vittorio Paolino Pasciari

Non si sevizia un paperino è un film del 1972 diretto da Lucio Fulci. La pellicola ha per interpreti principali Tomas Milian (Andrea Martelli), Barbara Bouchet (Patrizia), Florinda Bolkan (la maciara), Irene Papas (Aurelia Avallone), Marc Porel (don Alberto Avallone), George Wilson (zio Francesco), Virginio Gazzolo (magistrato), Ugo D’Alessio (maresciallo dei carabinieri), Antonello Campodifiori (tenente dei carabinieri), Franco Balducci (padre di Michele), Vito Passeri (Giuseppe Barra), Andrea Aureli (padre di Bruno Lo Cascio) e Linda Sini (madre di Bruno Lo Cascio). È considerato il capolavoro di Fulci e una delle opere fondamentali del giallo italiano, nonché uno dei film più inquietanti e morbosi girati dal regista, oltre che il suo preferito. L’ambientazione in un paese retrogrado del sud Italia era inedita sino ad allora nel thriller italiano. Il soggetto è ispirato ad un fatto di cronaca reale avvenuto a Bitonto nel 1971 dove ci fu una serie di omicidi con bambini come vittime.

TRAMA Ad Accendura, paesino del sud Italia, l’apparente tranquillità viene sconvolta da una serie di sparizioni e uccisioni di alcuni bambini. I carabinieri sembrano brancolare nel buio mentre i paesani mostrano paura e diffidenza puntando il dito contro una donna ritenuta una maciara (strega). Un giornalista milanese in vacanza presso il paesino, Andrea Martelli, inizia delle indagini personali aiutato dalla giovane e bellissima Patrizia, maliziosa e annoiata figlia di un industriale confinata dal padre in una villa alla periferia di Accendura. Fra la superstizione e la diffidenza generale i due improvvisati detective riportano alla luce una verità sconvolgente che mette a nudo il maligno celato nel paese.

ANALISI L’apparente tranquillità di un paesino in collina è l’anticamera perfetta per dissimulare una vicenda scabrosa e mostrare gli scheletri nell’armadio di una realtà omertosa. Le innocenti vittime di una spietata furia omicida sono semplici adolescenti colpevoli solo di essere incuriositi, non senza provocazioni spontanee di una maliziosa noia (Barbara Bouchet), dai piaceri della carne ipocritamente osteggiati da una falsa moralità bigotta. Tre potenziali sospetti vengono offerti allo spettatore come dati in pasto ad una folla corrotta dall’ignoranza e dalla superstizione, affamata di capri espiatori a discapito della verità da ricercare. Inquadrature in campo largo sono perfettamente bilanciate con primi piani conditi da musiche perfette a scandire una climax ascendente di emozioni e suspense. Schietto e spietato realismo mostra il regista nel dipingere la paura dei paesani che esplode in atti di ingiustificata vendetta (l’uccisione della maciara, una splendida Florinda Bolkan) e la quasi indifferenza delle stesse forze dell’ordine che brancolano nel buio. Alla fine i più improbabili degli elementi, forse non a caso, si danno da fare per scoprire la soluzione del mistero che si dimostra davvero una delle più sconcertanti denunce della depravazione quale conseguenza di un deviato senso di protezione nei confronti di anime innocenti.

“Alcuni mi ritengono completamente pazzo perché tento sempre di uscire dal genere, tento di essere un terrorista del genere. Sto dentro, ma ogni tanto metto la bomba che tenta di far deflagrare il genere. Infatti ne ho trascorsi tanti, di generi…” (Lucio Fulci)

GENIO VERSATILE E MAESTRO Il regista e sceneggiatore romano Lucio Fulci (1927-1996) si autodefiniva un terrorista dei generi poiché dirigendo un classico film di genere (commedia, horror, thriller, spaghetti-western) vi inseriva temi e stili personali, cercando di provocare e scioccare lo spettatore. Ha affrontato ogni tipo di pellicola senza pregiudizi e con la massima professionalità, lottando sempre con budget ristretti, riuscendo a offrire grande effetto con pochi mezzi. Questo suo stile contaminato lo rende un cineasta completo che ha lasciato un segno indelebile nel mondo in celluloide. Ma prima ancora di mettersi dietro la cinepresa va ricordata anche una proficua carriera come paroliere: sua è la mano che scrisse classici della musica leggera resi immortali da artisti come Adriano Celentano (24000 baci e Il tuo bacio è come un rock).

Dopo un esordio alla regia con film comici (I ladri, 1959) e gialli (Una lucertola con la pelle di donna, 1971), alla fine degli anni ’70 si dedicò al genere di cui può ritenersi, assieme a Mario Bava e Dario Argento, un maestro: l’horror. Zombie 2 (1979), La Trilogia della morte (1980-1981), Paura nella città dei morti viventi (1980), …E tu vivrai nel terrore! L’aldilà (1981), Quella villa accanto al cimitero (1981) furono i titoli che gli valsero presso la critica cinematografica francese gli appellativi di poeta del macabro e Godfather of gore. Oggetto al suo tempo di inevitabile indifferenza, nonostante innegabili successi di pubblico e botteghino, da parte della (sempre bacchettona) critica italiana, i suoi film oggi sono stati rivalutati e tutt’ora sono considerati dei capisaldi del genere splatter, godendo di grande fama negli omaggi offerti da registi internazionali come Sam Raimi e Quentin Tarantino che nelle loro pellicole inseriscono varie citazioni.

UN GIALLO INSOLUTO “Il Diavolo a Bitonto”, “L’ incubo del mostro sul ghetto di Bitonto”: con queste titolature presentavano, rispettivamente, i settimanali Epoca  e Tempo un fatto di cronaca che ispirò Fulci per il suo film. Dall’11 settembre 1971 fino al 6 giugno 1972, cinque bambini annegarono all’interno di un pozzo (in realtà una piccola e misera cisterna) situato presso una casa nel centro storico della città pugliese.  L’età delle piccole vittime era compresa fra un mese e cinque anni e quasi tutte le vittime risultavano a vario titolo imparentate fra loro. Il contesto in cui si consumò il fatto corrispondeva alla parte più culturalmente remota e profonda al di qua delle antiche mura, uno spazio di miseria e arretratezza confinato in case vetuste e malandate che l’amministrazione guidata da Domenico Saracino negli anni ’60 non era riuscita ad inserire nel contributo che gli permise di far decollare definitivamente Bitonto dalle difficoltà post-belliche:

“La vicenda allucinante si è svolta qui, nel quartiere dei truscianti, venditori di stracci pare d’origine zingara, che hanno formato, nella città vecchia, una specie di isola, quasi un ghetto in cui si stenderebbe una rete fitta di vendette tra famiglie, di omertà, di paure, di superstizioni.” (estratto dal settimanale Tempo). Come riportano, non si sa con quanta approssimazione o ricerca di effetto, le cronache dell’epoca, addirittura la nonna di tre dei cinque bimbi uccisi, Maria Giuseppa Semeraro, fu a lungo indiziata. Non molto è dato sapere sui risvolti giudiziari, a partire dall’ipotetico movente.

UN FILM DENUNCIA? Rispetto alla cronaca, che ancora adesso mostra interrogativi senza risposta, Fulci cambia l’ambientazione girando le scene nel Gargano e a Matera (la fantasiosa città di Accendura richiama la lucana Accettura) e raccontando una storia che risulta piuttosto lontanamente ispirata alla crudele realtà di Bitonto.

Quello che interessa al regista romano, che sfrutta con maestria interpreti credibili, inquadrature rese suggestive dal paesaggio rupestre e dalle musiche (anche quelle più allegre offrono effetti inquietanti) che aumentano la tensione, è evidenziare quanto sia spietatamente facile giudicare e condannare seguendo la paura e l’ignoranza che offuscano la vista e impediscono di accettare una verità resa ancora più sconcertante perché sorretta dal falso moralismo e dall’omertà di una mentalità ristretta.

CAPOLAVORO PER INTENDITORI.

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