Amar non è il suo vero nome, ma per la sua sicurezza, dopo l’intervista ha chiesto che non venisse rivelato. Ha paura, nel suo Paese ha avuto problemi dalla sua stessa famiglia. Nella sua testa la paura e i ricordi bui sono troppo forti, nulla può essere lasciato al caso per lui. Quando ci racconta la sua storia prende spesso delle pause, un po’ per tradurre mentalmente in italiano i suoi pensieri, un po’ per prendere coraggio e raccontare. La sua storia, però, è una storia di solitudine e viaggi, di porte sbattute e di occasioni da cogliere al volo. Amar in questo mondo è stato spesso “senza”: senza un padre (morto quando lui aveva 13 anni), senza una famiglia (che ha scelto di seguire le regole della sua religione), senza un figlio (che per forze di causa maggiore non può vedere), senza un lavoro, senza soldi, senza casa, senza medicine per curarsi. La sua è una storia di privazione. L’unica cosa che non gli è mancata, si può dire, è stata proprio la speranza. Ed è stata questa speranza che l’ha portato in Italia.
Abbandonata la Costa d’Avorio dopo la guerra perchè aveva avuto un figlio con una ragazza cristiana e quindi non poteva convivere, isolato dalla famiglia, si trova senza un lavoro e decide di andare a cercarlo in giro per l’Africa. Finisce per diventare un senzatetto in Algeria dove (lui racconta) “i neri non andavano molto a genio agli arabi”. Incontra un allevatore di pecore libico che gli offre un lavoro. Amar, solo al mondo, accetta. Tuttavia, questa tranquillità durerà poco. Dopo appena 3 mesi, una sera, al ritorno da lavoro 4 uomini armati lo prelevano e lo portano in una delle carceri libiche. Lì Amar racconta che i carcerieri chiedevano il riscatto ai familiari per liberare i prigionieri. Amar però non aveva una famiglia e quindi fu costretto a rimanere in quella cella per 7 mesi, mangiando una volta al giorno e con 80 persone in una stanza. Un giorno, dopo aver parlato a lungo nei mesi precedenti con il carceriere, approfitta di una sortita del direttore del carcere e scappa grazie proprio al guardiano. Il primo rifugio che trova è dal suo vecchio datore di lavoro, ma la situazione peggiora: Amar in carcere si è ammalato, non può lavorare e le medicine non ci sono. Dopo pochi giorni un uomo (Amar lo definisce un militare ma non sa se lavorasse con la guardia costiera libica) gli offre di andare in Italia per curarsi, le spese per la tratta le pagherà il suo datore di lavoro, quell’allevatore di pecore che gli ha dato più di una opportunità. Amar sale su uno di quei barconi, le cose si mettono male, una persona muore, ma lui si salva e grazie ad una ONG riesce a toccare terra. In Italia ora sta bene, anche se la situazione per lui non resta facile. Ha la vita, la salute, ma non ha ancora un lavoro (lui fa l’elettricista). In Italia ci vuole rimanere, vuole migliorare il suo italiano e lavorare (nonostante nel suo centro d’accoglienza lui confidi di non aver nessun percorso di inserimento efficace).
Amar è uno dei tanti di quei disperati che scendono dai barconi. Chiede una vita migliore, una storia che possa essere degna di questo nome. In Italia, o forse altrove, noi ci auguriamo che la trovi. Che si ricongiunga con suo figlio e con la sua compagna. Gli auguriamo un lieto fine. In fin dei conti, tutti se lo meritano.