In casa da 7 anni, senza mai uscire. E’ la storia di Marco, raccontata dal Corriere del Veneto. E’ la storia di un ragazzone che ha scelto di auto isolarsi nella sua cameretta come ormai diverse decine di migliaia di giovani italiani hanno fatto in questi anni. Tante le cause di questo autoisolamento che in Giappone definiscono tipico di un Hikikomori: gli insulti dei bulli, il disinteresse dei professori, la disarmonia tra i genitori.
“Soffrivo di un grave problema di dermatite e per questo i miei coetanei mi escludevano – racconta –Crescendo, sono arrivati i bulli. Avevo la pelle rovinata, ero magrissimo e con delle profonde occhiaie dovute al fatto che la notte non dormivo per le irritazioni: mi soprannominarono Zombie. Più passava il tempo, più mi sentivo sbagliato. I professori sembravano non capire i miei problemi, mi trattavano come uno scansafatiche“.
A tredici anni i genitori gli regalano il suo primo computer che usa per cominciare a giocare a World of Warcraft, creandosi così un personaggio immaginario ed entrando in un mondo fantascientifico. “C’erano migliaia di giocatori e, specie all’epoca, nessuno ti chiedeva la foto né il tuo vero nome. Fu una sensazione bellissima: lì non venivo giudicato per il mio aspetto e finalmente potevo sentirmi uguale a tutti gli altri“, afferma Marco.
I suoi genitori però si separano e lui decide di interrompere gli studi: “Era inutile continuare, alla sola idea di andare a scuola, stavo male. Mi sentivo come un vetro rotto al quale nessuno dava una mano a rimettere insieme i pezzi. Così mi sono auto-escluso da tutto, che poi è il modo più efficace per non permettere alle persone di ferirmi come hanno fatto tante volte, in passato“.
Oggi però il 25enne di Treviso ha trovato un modo per cavare qualcosa di positivo dal suo isolamento: “Mi pagano per scovare e poi allenare i campioni di e-sport. Gli specialisti sono soprattutto nordeuropei, anche se non mancano gli italiani. Il mio compito è mettere insieme dei team e prepararli ad affrontare al meglio i vari livelli di sfida. Il tutto, ovviamente, rimanendo ciascuno a casa propria“.
Il futuro lontano dalla sua stanza però è ancora incerto: “La sera, a letto, me lo chiedo spesso. Adesso non sono felice, spesso mi sento solo. Eppure non so immaginare se mi ritroverò ancora qui dentro, oppure in un bar con gli amici. Spero però che la mia esperienza serva ad altri ragazzi, affinché trovino il coraggio di farsi aiutare prima che sia troppo tardi. Ma soprattutto, voglio che la società si accorga di noi hikikomori, che sappia che esistiamo e che siamo sempre di più. Perché quel giorno, finalmente, non saremo più dei fantasmi“.
QUI l’intervista completa a cura del Corriere del Veneto.