La storia di Giuseppina Giugliano, meglio conosciuta come la bidella pendolare, ragazza napoletana di 29 anni, è stata riportata su tutte le più importanti testate giornalistiche, suscitando le più disparate reazioni e tanti dibattiti. La giovane racconta, in un’intervista a “Il Giorno”, di fare 6 giorni su 7 la tratta Napoli-Milano all’andata e Milano-Napoli al ritorno, per andare a lavorare, come operatrice scolastica al liceo artistico Bocconi di Milano. Con il suo stipendio, di circa 1165 euro circa al mese, infatti, non riuscirebbe a vivere in una città come Milano e a pagarsi l’affitto. Così, quasi ogni giorno, prende un treno da Napoli alle 5:00 ed arriva a Milano giusto in tempo per prestare servizio e ritorna nella sua città natale con un altro treno per le 23. Una ragazza sballottata da Sud a Nord e viceversa pur di lavorare. Prendere una stanza, un appartamento, non le converrebbe; i costi degli affitti sarebbero troppo alti e preferirebbe fare questo lungo tragitto ogni volta. Così facendo dichiara di spendere molto di meno: “Accumulando punti con i viaggi che faccio e prendendo i biglietti con tanto anticipo, il treno mi costa poco, circa 400 euro al mese. Molto di meno di una stanza in condivisione a Milano”.
La sua storia tuttavia non convince tutti e sembrerebbe poco credibile; non tornano i conti nemmeno sui costi dei biglietti, poiché anche utilizzando promozioni e coupon la spesa mensile non potrebbe essere inferiore ai 600 euro. Alcuni, indagando meglio, come Le Iene di Italia 1, avrebbero scoperto che la ragazza ha fatto così fino a dicembre e ora sarebbe in congedo.
Che la storia sia vera del tutto o solo in parte, non importa in realtà. Quello su cui ci si dovrebbe fermare a riflettere è se si può considerare questa dignità del lavoro. Quella di Giuseppina sarà pure una storia probabilmente romanzata, ma tanti giovani si trovano a dover scendere a compromessi così, a considerare ogni proposta lavorativa (in nero, o in condizioni di quasi schiavistiche) una fortuna, anche facendo enormi sacrifici, annullando la propria vita. È giusto non vivere per lavorare? È giusto stare in condizioni come queste lottando ogni giorno contro il precariato e la bassa retribuzione? Non avere talvolta un contratto dal valore legale? La storia di Giusy è un esempio rappresentativo di quello che tanti giovani, magari anche genitori, sono costretti ad affrontare. Mentre qui va così, nei Paesi europei più sviluppati, come Belgio e Spagna, invece si sperimenta la settimana lavorativa breve, che, come è dimostrato, comporta una serie di vantaggi sia sul benessere del lavoratore sia sulla sua performance professionale.
La relazione del Ministero del Lavoro, coordinata dall’economista Andrea Garnero, attesta che circa il 25% dei lavoratori sono considerabili lavoratori poveri, con una retribuzione che è inferiore al 60% della retribuzione mediana e il 10% verserebbe invece in condizioni di povertà.
In Italia si rinvia continuamente l’approvazione di un salario minimo, in quanto danneggerebbe la contrattazione collettiva e il sistema di relazioni industriali che ha contraddistinto il nostro Paese, poiché a tutelare i salari dei lavoratori ci sono i contratti collettivi nazionali che vengono concordati e firmati tra i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro e aggiornati ogni tre anni.
Inoltre, più della metà dei giovani lavoratori ritiene di essere pagato troppo poco. Per 4 persone su 10, infatti, la retribuzione mensile è inferiore ai 1000 euro, solo un terzo riceve un salario più dignitoso, tra i 1000 e i 1500 euro, mentre meno di uno su quattro supera i 1500 netti al mese. Tra colleghi e colleghe c’è anche una forte differenza di salario: lo stipendio medio per i giovani lavoratori è di 1160 per gli uomini e 996 per le donne. L’INPS afferma che in Italia la maggior parte degli under 35 è sotto contratto a tempo determinato, tirocinio o stage o a collaborazioni occasionali e a forme di lavoro autonomo. Queste sono solo alcune delle motivazioni (un’altra potrebbe essere ad esempio quella della sicurezza sul lavoro) che spiegano perché l’Italia è lontana dal poter assicurare ai propri lavoratori condizioni dignitose.