“La Grande Bellezza”: Sorrentino dirige la sua “Dolce Vita” con un Toni Servillo da Oscar

di Felice Sangermano

Benché ritenuti i più famosi fra i riconoscimenti cinematografici, i premi Oscar, si sa, seguono una logica controversa, che non sempre sembra garantire giudizi imparziali e meritocratici. Quasi peggio della giuria del festival di Sanremo. Ironia a parte, basti pensare al fatto che registi come Stanley Kubrick, Alfred Hitchcock e Orson Welles, tanto per fare il nome di qualche fesso, sono sempre stati snobbati agli Academy. Clamoroso. Paradossale. Vergognoso. Eppure vero.

Fatta questa debita premessa (lo ricordiamo a fini più che altro statistici), ad oggi, l’ultimo regista italiano premiato con la prestigiosa statuetta per il miglior film straniero è stato Paolo Sorrentino, con La grande bellezza (2013). L’anno era il 2014. Dopo un quindicennio di vuoto — dai tempi de La vita è bella, quando Benigni si mise a passeggiare sulle spalliere delle poltrone e fra le teste degli ospiti — l’Italia poteva finalmente rialzare la testa alla notte degli Oscar. Certo, l’esultanza di Sorrentino è stata più sobria di quella dell’incontenibile toscano. Uomini diversi, stili diversi.

LA TRAMA Jep Gambardella (Toni Servillo), giornalista e critico dedito alla mondanità romana (“il re dei mondani”, come lui stesso si definisce), è stato autore in gioventù del romanzo capolavoro L’apparato umano, considerato un testo di riferimento nel panorama della letteratura italiana. Da allora però sembra aver smarrito la Musa, sprofondando in un blocco creativo che gli ha impedito di produrre altri libri. Cinico, disilluso, nichilista, disperso nelle abitudini vacue di una Roma viziosa, Jep considera la sua vita come vuota e priva di senso. Solo il ricordo del suo primo e indimenticato amore, e la voglia di rivivere quell’innocente Grande Bellezza perduta, gli darà l’input per scrollarsi. “Ho una mezza idea di riprendere a scrivere”, confiderà nel finale al suo amico Romano.

Avvalendosi del genio interpretativo di Toni Servillo, Sorrentino plasma un personaggio indimenticabile, quel Jep Gambardella che, arrivato a sessantacinque anni, sembra voler abbassare per un momento le luci abbaglianti delle feste capitoline, spegnere le musiche che spaccano i timpani e fermarsi a riflettere sulla propria vita, tirandone finalmente le somme. Il bilancio non sarà positivo. Gli anni sono scivolati via tra feste e trenini che “non vanno da nessuna parte”. L’ispirazione letteraria non è mai tornata, dispersa e mortificata da una realtà che acclama come artisti improbabili esseri umani che prendono a testate un muro e poppanti invasati che schizzano vernice colorata su una tela bianca. Di fronte a tutto ciò lo sguardo di Jep si fa sempre più apatico e disilluso, con accessi di critica dissacrante che non risparmia niente e nessuno: l’arte contemporanea (spettacolarizzata da performance di gente che non fa altro che gettare fumo negli occhi); il clero (rappresentato dal cardinal Bellucci, che pare interessato più alle questioni culinarie che a quelle di fede); gli amici (indimenticabile la scena in cui Jep fa a pezzi Stefania, umiliandola davanti a tutti).

La filmografia di Sorrentino è tutta attraversata da questi protagonisti scollati dalla realtà circostante, anche quando assumono ruoli apicali o di successo. Tony/Antonio Pisapia, Titta Di Girolamo, Cheyenne. Figure sostanzialmente solitarie, tormentate da qualcosa di vago, eppure così concreto dentro di loro, che li morde e non li lascia mai in pace. Una sorta di malessere esistenziale che cerca di definire sè stesso senza mai riuscirci del tutto.

Il tempo è elemento nevralgico nella poetica sorrentiniana: esso non solo vola via inesorabile (“La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”), ma sembra anche corrompere l’animo delle persone. Ciò che resta è il ricordo, che assume sempre tinte nostalgiche. E per tutto il film Jep viene rincorso da visioni risalenti alla sua giovinezza, una dimensione lontana non solo cronologicamente, ma anche e soprattutto psicologicamente. Ed è in quella dimensione remota che restano confinate le sensazioni più belle, più piene, quelle che danno sapore ai ricordi di Jep e di cui risulta così monco il presente. La cosa più immensa della bellezza, scriveva Bukowski, è scoprire che se n’è andata.

Quello messo in scena da Sorrentino è un mondo in disfacimento, corrotto alla radice. La critica alla superficialità di certi ambienti è più che evidente. Il fantasma che rincorre la cerchia di nobili che si susseguono sullo schermo è il vuoto esistenziale, l’insoddisfazione che li attanaglia in una vita fatta d’apparenze, spesa tra agi e vizi sfrenati. Uno sperpero esistenziale che si cerca di riparare col sesso, la fede, l’arte. Ma il sesso senza amore, per quanto piacevole, risulta un’esperienza fine a sè stessa. Così come vuote sono l’arte e la fede, se private della loro vera essenza. Questo il mondo attuale di Jep, che contrasta ferocemente con la dimensione perduta dei suoi ricordi. Eppure, in mezzo allo “squallore disgraziato”, si possono ancora ritrovare “sparuti incostanti sprazzi di bellezza”. Jep ha la sensibilità giusta per coglierli. Emergono dalla quotidianità apparendogli come vere e proprie visioni. E allora non tutto è perduto. Ci si può ancora emozionare e stupire. C’è ancora Bellezza. Val la pena di vivere. Si può perfino pensare di tornare a scrivere.

La messa in scena di Sorrentino come al solito indulge al virtuosismo, alla magniloquenza e all’autocompiacimento (vere e proprie cifre stilistiche del regista napoletano), in maniera talvolta così smaccata da risultare indigesta a molti palati. Parecchi hanno criticato la lunghezza della pellicola, ritenuta eccessiva e non funzionale alla narrazione: due ore e venti, che arrivano quasi a tre nella versione integrale (anche se su questo punto ci sarebbe da discutere). Sovrabbondante, manieristico, presuntuoso soprattutto nel suo richiamarsi a La Dolce Vita di Fellini, bisogna tuttavia riconoscere il valore culturale e poetico di un film che risulta girato e montato in maniera magistrale. Sorrentino si conferma non solo scrittore di livello (notevole la sceneggiatura da lui vergata insieme a Umberto Contarello), ma anche regista di primo piano nel panorama italiano.

Giudicato positivamente dalla critica cinematografica internazionale e in maniera più controversa da quella italiana (che ne ha contestato soprattutto il presuntuoso tentativo emulativo del mostro sacro felliniano), La grande bellezza rimane impresso nella memoria come un’opera autoriale malinconica e nostalgica. Esperienza visiva e uditiva solenne. Capolavoro per alcuni, fuffa per altri, quello di Sorrentino è un film che divide e fa discutere, stimolando un dibattito che fa bene all’arte. Merita sicuramente una possibilità.

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