Inflazione: impatti reali e nascosti anche sulla previdenza

di Vincenzo Frate

Dopo un anno di sostanziale attesa in seguito alla tempesta Covid, il 2022, con la crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina, ha sancito definitivamente la presenza del fattore inflazione nelle dinamiche e nelle tematiche che l’economia si è trovata ad affrontare. Da sempre l’inflazione è stato uno spauracchio contro cui gli Stati e le banche centrali hanno dovuto combattere per poter regolamentare l’andamento dell’economia. Le diverse politiche sui tassi di interesse portate avanti negli anni avevano trovato un giusto compromesso tra necessità di risorse a buon mercato da parte delle imprese e dei consumatori ed aumento dei prezzi.

L’inflazione influenza il potere d’acquisto delle famiglie, incide sul valore dei salari dei lavoratori e sul valore nominale dei debiti e dei crediti. In particolare, dal momento dell’unione economica in Europa, la linea guida della Germania, da sempre attenta alla dinamica della variazione dei prezzi, aveva relegato in un fattore non più rilevante il problema delle variazioni dei prezzi.

La Banca Centrale Europea, ad esempio, ha un obiettivo di crescita dei prezzi fissato al 2%, superato il quale deve operare attivamente per contenere la crescita dei prezzi, anche sacrificando altri obiettivi economici come l’occupazione o il tasso di cambio. Generalmente, sappiamo che l’inflazione è creata da molteplici dinamiche, sia interne ai cicli economici che esterne. Queste ultime portano alla conseguente riduzione dei consumi sostituibili ma non certo di quelli ineludibili, come l’alimentazione o la spesa per i trasporti.

I lavoratori che osservano un aumento dei prezzi reagiscono chiedendo un aumento salariale a fine di recuperare il potere d’acquisto. L’aumento dei salari innesca però una spirale inflativa, prezzi-salari-prezzi, che potenzialmente impatta negativamente su tutta l’economia. Secondo l’Istat il dato medio dell’inflazione 2022 in Italia è arrivato all’8,1%, dato più alto dal 1985, un salto enorme se si considera che nel 2021 il dato percentuale è stato dell’1,9%.

Al di là del degli effetti sui consumi delle famiglie, c’è un altro tema legato all’inflazione che riguarda da vicino i lavoratori: la destinazione del proprio Trattamento di Fine Rapporto. Il tutto perché l’annosa disputa – TFR a fondo pensione contro TFR in azienda- viene legato all’andamento dell’economia. Il motivo del contendere è dato dalla necessità di rivalutazione dello stesso ogni anno. Secondo la normativa vigente per i lavoratori che prestano il loro servizio in aziende con meno di 50 dipendenti, lasciando il loro trattamento, devono ricevere una rivalutazione fissata per legge in una quota minima dell’1,5% più il 75% dell’inflazione annua.

Facendo un rapidissimo computo, per il 2022 si avranno rivalutazioni di oltre il 7,5%. Questo perché la parte variabile della rivalutazione, l’inflazione, ha avuto e presumibilmente avrà anche sul 2023 dei numeri estremamente elevati. Il problema per questi anni ad alta inflazione si sposta sui lavoratori che avevano optato per le adesioni ai fondi pensione, sia di categoria che aperti. Infatti, per costoro la rivalutazione annuale risulta legata agli andamenti dei titoli finanziari con una fluttuazione negativa del 9,8% per i fondi negoziali e del 10,7% per i fondi pensione aperti. Anche i Pip hanno registrato un saldo negativo dell’11,5%.

Un quadro tutt’altro che positivo che dovrà essere tenuto in debita considerazione dalle parti sociali e dal Governo, oltre che dagli operatori finanziari in vista dell’ulteriore intenzione di apportare modifiche alla previdenza complementare. La rivalutazione del TFR trasferito nei fondi pensione di propria volontà o per obbligo, per i dipendenti di aziende con più di 50 addetti, è data dalla performance che si riuscirà ad ottenere nell’anno investendo il patrimonio sui mercati finanziari.

Se da un lato è evidente che destinando il TFR al fondo pensione viene meno la certezza della quota fissa – tasso di rivalutazione dell’1,5% che certamente verrà riconosciuto dall’azienda – dall’altro ci sono almeno due considerazioni necessarie da fare per avere tutti gli elementi essenziali a compiere una corretta valutazione: a) l’arco temporale con cui si confrontano i rendimenti generati dal TFR in azienda o dal fondo pensione; b) i vantaggi fiscali e non, che si ottengono aderendo a una forma pensionistica complementare.

Tutto questo riesce ad assumere un significato più chiaro laddove lo si contestualizzi al particolare momento storico che stiamo attraversando che ha ribaltato le considerazioni fino ad ora assunte nella decisione della destinazione del TFR o di qualsiasi altro investimento, tenuto conto della presenza di un’inflazione così elevata .

I fattori contingenti assumono significati rilevanti quando l’orizzonte temporale che viene preso in considerazione è il breve periodo. Per converso, nel caso dei fondi pensione, non si può che assumere orizzonti temporali di medio/ lungo periodo. A tal proposito, secondo la relazione COVIP 2021, il tfr in azienda ha avuto una rivalutazione media dell’1,9% a fronte di un rendimento medio delle forme pensionistiche che oscilla dal 2,2% al 5%.

L’inflazione tende a renderci più poveri perché a parità di reddito nominale cala il nostro reddito reale. Almeno questo è vero per tutti coloro che non hanno controllo sui prezzi e le tariffe, cioè che non possono trasferire ad altri l’aumento dei prezzi che subiscono. L’attività è stata più resiliente del previsto ma abbiamo visto che l’inflazione è rimasta elevata. Ad ogni buon conto le aspettative si sono deteriorate poiché le banche, a seguito dei numerosi aumenti dei tassi da parte della BCE, hanno inasprito le condizioni di credito fino a spingere i consumatori ad intaccare i propri risparmi per far fronte ai continui rialzi dei prezzi.

Per i prossimi mesi quindi ci si aspetta un’economia che viaggi in presenza di un’inflazione alta con tassi di interesse in crescita; il tutto impatterà sulla ripresa economica e sulla dinamica dei prezzi e solo un intervento sagace da parte dei Governi e delle banche centrali potrà riportare il ciclo economico verso il suo naturale svolgimento, relegando ad eventi eccezionali il combinato disposto della incredibile pandemia da Covid e la successiva guerra nell’est Europa. L’orizzonte temporale resta un caposaldo della gestione finanziaria di ogni cittadino e solo tenendo ben ferma questa idea si potranno evitare scelte dettate dagli accadimenti estemporanei.

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