In questo periodo di sospensione di molte attività ricreative e socio-culturali nel nostro Paese per le dimensioni che ha raggiunto l’epidema da Covid-19, non mancano i momenti per leggere ottimi saggi e romanzi del passato nelle nostre case. Uno di questi è stato la chiave di svolta nella narrazione della mafia e della criminalità organizzata nella letteratura contemporanea italiana.
Nell’estate di sessanta anni fa Leonardo Sciascia iniziò a raccontarci di mafia in ambito narrativo, prima di lui pochi lo avevano fatto. Sciascia scrisse di questo romanzo sulla mafia nella prefazione:
Ho impiegato addirittura un anno, da un’estate all’altra, per far più corto questo racconto… ma il risultato cui questo mio lavoro di cavare voleva giungere era rivolto più che a dare misura, essenzialità e ritmo, al racconto, a parare le eventuali e possibili intolleranze di coloro che dalla mia rappresentazione potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti. Perché In Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi né coi fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si vuol fare sul serio.
Nell’Avvertenza del 1972 che funge da Appendice al libro in occasione dell’uscita del romanzo nella colonna “Letture per la scuola media” della casa editrice Einaudi, Sciascia esplicitamente ricorda che nel 1960 il governo nazionale negasse l’esistenza della mafia, malgrado esistessero documenti a dimostrarne l’esistenza. Primo tra tutti “L’inchiesta parlamentare sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia“ (1875) e quella parallela, condotta di propria iniziativa da due giovani studiosi, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino; c’erano stati i saggi di Napoleone Colajanni; il saggio di un ex funzionario di Pubblica Sicurezza, Giuseppe Alongi, intitolatoMaffia; le memorie dell’ex prefetto Cesare Mori, che nel ventennio non aveva lesinato metodi anche drastici per sradicare il fenomeno.
Di romanzi e opere teatrali il panorama letterario fino a quegli anni era ancora scarno, appena due le opere teatrali che seconda Sciascia descrivevano e addirittura costituivano un’apologia non della mafia, ma di quello chiamato da Giuseppe Pitrè il “sentire mafioso“, ovvero I mafiusi di la Vicarìa (la Vicarìa era il carcere di Palermo) e Mafìa. Il sentire mafioso a cui accenna Sciascia altro non è che una visione di vita, una regola di comportamento, un modo di realizzare la giustizia, di amministrarla, al di fuori delle leggi e degli organi dello stato. Nella sua storica Avvertenza del 1972 scrive ancora Sciascia:
Ma la mafia era ed è un’altra cosa: un sistema che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato ma dentro lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta[…] […] Il giorno della civetta, in effetti, non è che un “per esempio” di questa definizione.[…]
Il romanzo poliziesco Il Giorno della Civetta trae spunto dall’omicidio di Accursio Miraglia, sindacalista comunista, avvenuto a Sciacca nel gennaio del 1947 ad opera di Cosa Nostra. La trama dell’opera si nutre di personaggi e vicende non corrispondenti alla realtà, ma si ispira a vicende che verosimilmente accadevano in quegli anni.
La trama
Salvatore Colasberna, presidente di una piccola cooperativa edilizia di S., una mattina viene ucciso con due colpi di lupara mentre sta per salire sull’autobus diretto a Palermo. All’omicidio hanno assistito molte persone, ma nessuno è disposto a testimoniare, ad eccezione di un venditore di panelle che, dopo un interrogatorio di due ore, afferma di aver sentito, verso le sei, due spari provenire da un sacco di carbone situato vicino al cantone della chiesa all’angolo tra via Cavour e piazza Garibaldi.
Le indagini vengono affidate al capitano Bellodi, comandante della compagnia di C., emiliano di Parma, ex partigiano, destinato a diventare avvocato, ma rimasto in servizio nell’arma in nome di alti ideali. Grazie a una lettera anonima, scritta da un fratello di Colasberna, Bellodi decide di indagare nel settore degli appalti e dell’associazione criminale che li controlla, ossia la mafia. La sua decisione è rafforzata anche da un’indicazione che riesce a strappare al confidente Calogero Dibella, detto Parrinieddu. Il capitano Bellodi riceve il nome del presunto omicida, Diego Marchica, detto Zicchinetta, dalla moglie di Paolo Nicolosi, un potatore scomparso e ucciso per aver riconosciuto l’assassino. Bellodi scopre nel fascicolo investigativo del Marchica che è un noto sicario, conosciuto e frequentato dall’onorevole Livigni. Il Marchica è processato e condannato per molti reati, ma scagionato per altrettanti, a causa di insufficienza di prove. All’arresto di Marchica segue l’uccisione di Parrinieddu. Prima di essere ucciso, tuttavia, il confidente spedisce un messaggio a Bellodi: due nomi al centro del foglio e sotto, quasi al margine, gli ossequi e la firma. I nomi sono quelli di Rosario Pizzuco e, soprattutto, di Mariano Arena, il capomafia del paese. Proprio al momento dell’incontro con Bellodi, Sciascia fa pronunciare a don Mariano la frase contenente l’espressione idiomatica “quaquaraquà“, destinata a divenire celeberrima e collegata nella cultura popolare al mondo mafioso e ai concetti che lo vanno a governare:
Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…
Grazie a un’abile messinscena organizzata da Bellodi e a un falso verbale di interrogatorio, a Marchica vien fatto credere che Pizzuco lo abbia tradito, accusandolo dell’uccisione di Colasberna e Nicolosi. Il verbale delle dichiarazioni attribuite a Pizzuco è stato in realtà sagacemente costruito da tre marescialli, che hanno avuto l’accortezza di renderlo verosimile escludendo l’esistenza di qualsiasi mandante. Il falso verbale ne fa scaturire due, autentici: il primo di Marchica che, credendosi tradito, si vendica ammettendo l’uccisione di Colasberna e attribuendo quella di Nicolosi al Pizzuco; il secondo, di Pizzuco, al quale non resta che ammettere il suo coinvolgimento, a suo dire soltanto indiretto, nei delitti commessi entrambi dal Marchica. L’arresto di Marchica, Pizzuco e Arena ottiene grande rilievo sulla stampa, soprattutto a causa dei legami di Arena con il ministro Mancuso e l’onorevole Livigni. Il fatto porta a un dibattito in Parlamento al quale partecipano anche due anonimi mafiosi e alcuni parlamentari. Bellodi, che intanto era rimasto a Parma, dopo aver preso una licenza di un mese, legge sui giornali spediti da un carabiniere dalla Sicilia, che il castello probatorio è stato smantellato grazie ad un alibi di ferro costruito da rispettosissimi personaggi per il Marchica. L’alibi è costruito appunto da uomini politici interessati a tutelare la propria posizione.
L’omicidio del Nicolosi viene attribuito all’amante della moglie e don Mariano viene scarcerato. Durante una serata in compagnia di amici, malgrado tutto, il capitano Bellodi si rende conto di amare la Sicilia e sa che ci tornerà. Le sue ultime parole, pronunciate a voce alta, con cui si conclude il romanzo sono: “Mi ci romperò la testa“.
[ FONTE FOTO: http://lamafiasiciliana.blogspot.com/2013/09/le-regole-della-mafia-siciliana.html ]