Era dal 2012 che non lo vedevamo calcare le scene e, onestamente, cominciavamo a pensare che avesse definitivamente accantonato la sua carriera attoriale limitandosi a rimanere dietro la macchina da presa. Per fortuna ci sbagliavamo. Alla soglia dei 90 anni (88 primavere per la precisione), Clint Eastwood torna in sala nella doppia veste di regista e attore con Il corriere – The Mule (2018), per raccontarci la storia incredibile ma vera di Leo Sharp (nel film rinominato Earl Stone), veterano della seconda guerra mondiale reinventatosi in veneranda età corriere della droga per il cartello di Sinaloa.
LA TRAMA Earl Stone (Clint Eastwood) è un anziano floricoltore mandato in bancarotta dall’avvento di internet e del commercio online. Rimasto solo e al verde, Earl accetta senza fare troppe domande una redditizia proposta di lavoro per cui è richiesta la sola attitudine alla guida. Solo in seguito si renderà conto di aver accettato di diventare un fattorino della droga per un potente e pericolosissimo cartello messicano.
Il Corriere riprende un discorso autoriale profondo, delicato, che sembrava essersi chiuso dieci anni prima con Gran Torino (2008). Diverse sono in effetti le assonanze tra Earl Stone e Walt Kowalski: entrambi reduci di guerra (e alla guida di un autoveicolo Ford), si caratterizzano fin da subito come uomini “senza filtri”, politicamente scorretti, perfino razzisti in apparenza. Eastwood ha assorbito bene la lezione antieroistica di Leone e degli spaghetti western in generale: non lo troveremo mai a interpretare un eroe puro, integerrimo, senza macchia, una faccia pulita e senza peccato alla John Wayne, tanto per fare un esempio classico, ma piuttosto qualcuno di molto più simile al celebre Uomo Senza Nome, cioè l’archetipo dell’antieroe moderno. I protagonisti eastwoodiani mettono sempre lo spettatore di fronte all’imperfezione umana, esigendo altrettanta onestà d’animo e schiettezza intellettuale. Earl Stone è un personaggio ambiguo, egoista, tormentato, tutt’altro che esemplare: guidato da un’etica edonistica che lo porta a godersi la vita sempre e comunque, mette se stesso e la sua pulsione alla libertà davanti alla famiglia, che in effetti sembra non voler saperne più niente di lui (ancora una volta torna la tematica dei difficili rapporti familiari); vizioso e impenitente, si ferma a mangiare il migliore arrosto di cinghiale dell’Illinois nonostante l’età glielo sconsigli e organizza frequenti incontri con le prostitute durante i quali si dichiara a rischio di attacchi cardiaci; e, ciò che fa da motore alla trama, “per qualche dollaro in più” (a dire il vero, non solo “qualche”) sospende il suo senso morale e patriottico accettando di diventare un trafficante di cocaina.
Grazie al basso profilo e alle sue tempistiche dilatate e imprevedibili che ne impediscono di tracciare gli spostamenti (a testimonianza dell’innegabile valore di quel “fattore umano” di cui Eastwood parlava già in Sully, 2016, e che va sempre più smarrendosi nella vita odierna), il “vecchietto ultraottantenne” si dimostra abilissimo nel suo nuovo lavoro riuscendo a farla in barba alla DEA più di una volta. Il suo carico di droga diventa sempre più grande a ogni corsa, così come il peso che si porta dentro. Un peso da cui ormai sente il bisogno di liberarsi. “Sono stato un pessimo padre, un pessimo marito. Ho rovinato tutto”, ammetterà davanti alla figlia. “Pensavo fosse più importante essere qualcuno da un’altra parte invece del fallimento che ero a casa mia”, dirà al capezzale della moglie confessandole il suo amore. E ancora. “Per quel che può valere, mi dispiace per tutto”. Quando mette in scena se stesso, il vecchio Clint lo fa sempre in maniera particolarmente intimistica (pur senza mai lasciarsi andare al pathos), spietatamente autobiografica diremmo. L’ultima poetica eastwoodiana è attraversata da questi personaggi in cerca di redenzione (vedasi il già citato Walt Kowalski di Gran Torino o il Frankie Dunn di Million Dollar Baby). Protagonisti rudi, solitari, arcigni di primo acchito, ma che nascondono una profonda umanità, per la quale possono arrivare a sacrificarsi. Personaggi che sentono di essere alla fine del loro percorso e tirano le somme, cercando di dare un senso a tutto. Ancora una volta, l’appropinquarsi della morte si fa palpabile. Una riflessione sul tempo che incalza, al quale l’autore/protagonista, cosciente che non gli rimane più molta strada da percorrere, risponde rallentando, fermandosi a mangiare un buon panino, ballando e godendosi la vita quando può. Ma, soprattutto, riappropriandosi delle cose più importanti, e cioè gli affetti. Earl tutto sommato ama la sua famiglia (ed è riamato da essa), come si comprenderà durante lo scorrere della pellicola.
Cast pieno di stelle: a parte Clint Eastwood che si ritaglia un ruolo su misura, spiccano su tutti Bradley Cooper (l’efficiente agente della DEA Colin Bates) e Andy García (il sofisticato capo del cartello messicano Laton). Si segnala anche la presenza di Alison Eastwood, figlia di Clint/Earl sia nel film che nella realtà (e che forse fornisce un ulteriore indizio del carattere almeno in parte autobiografico della pellicola).
La critica più bacchettona si è lamentata del cattivo esempio fornito dal gergo razzista sfoggiato in più occasioni da Earl, che chiama mangiafagioli i trafficanti messicani e negri — e non neri — gli uomini di colore. Come se il Cinema (o l’arte in generale) dovesse educare la gente a suon di modelli virtuosi. Sarebbe un Cinema stucchevole, fatto di unicorni e di arcobaleni. Per di più, chi muove questa critica dimostra di non aver afferrato il senso ultimo della pellicola, lo spirito profondamente eastwoodiano che la permea. Earl sorride di fronte all’ipocrisia delle norme linguistiche del politicamente corretto: per lui conta la sostanza, non la forma. E se è vero che rischia di offendere gli uomini di colore chiamandoli neri, è anche vero che a conti fatti lui è l’unico ad accostare per dar loro una mano a cambiare la ruota. Ma a proposito di razzismo (quello vero) e luoghi comuni, notevolissimo è il sarcasmo della bellissima scena in cui la DEA ferma un latino-americano solo perché corrisponde al profilo del classico sospettato e mentre quello smonta dall’auto spaventato a morte non fa che ripetere: “Statisticamente parlando, questi sono i cinque minuti più pericolosi della mia vita!”.
Un’opera che nel bel mezzo del cinismo regala sprazzi delicati, quasi nascosti, di poesia: Earl è specializzato nella coltura di un fiore effimero che vive solo un giorno, tale “emerocallide”, letteralmente “la bellezza di un solo giorno”. Una bellezza che si va sempre più perdendo nell’epoca spersonalizzante di internet in cui perfino i fiori si vendono di sito in sito semplicemente cliccando su un’immagine, senza bisogno di sfiorarli e di annusarli. Un progresso/regresso che metterà fuori causa Earl (“Internet…a chi serve?”, aveva detto qualche anno prima del fallimento). Evidente la critica sociale e la riflessione sulla deriva tecnologica e estetica che produce generazioni dedite solo alla forma (si notino i fisici pompati e tatuati di molti dei personaggi) ma a conti fatti incapaci di svolgere anche le più semplici operazioni (come cambiare una ruota) senza andare a cercarsi un tutorial sul web.
Una storia messa in scena alla perfezione su sceneggiatura di Nick Schenk (lo stesso di Gran Torino). I momenti leggeri (numerosissimi) si alternano a quelli drammatici, con meravigliose sequenze da road movie. Regia pulitissima, come al solito. Priva di sbavature. Eastwood gira così come recita: per sottrazione. Il corriere può essere considerato come un testamento supplementare di Eastwood dopo Gran Torino.
Significativamente alla fine dei giochi, Earl/Eastwood si dichiarerà colpevole, rinunciando a qualsiasi forma di difesa. Scelta metaforica e emblematica la sua, un’assunzione di colpa che non riguarda solo il traffico di droga. Il film si chiude con una meravigliosa panoramica dall’alto del carcere dove il protagonista continua a coltivare i suoi fiori effimeri.
Prima o poi arriva per tutti il momento di dire addio. Dopo Gran Torino, pensavamo che Clint avesse già lasciato il suo testamento ideologico. Ci sbagliavamo. Che sia davvero questa l’ultima “corsa” di Clint? Speriamo di sbagliarci ancora.