Gran Torino è un film drammatico del 2008 diretto e interpretato da Clint Eastwood.
LA TRAMA Walt Kowalski (Clint Eastwood), un vecchio americano dal carattere scontroso, cinico e testardo, reduce della guerra di Corea, vive in un quartiere abitato per lo più da asiatici e passa il tempo a bere birra e a lucidare la sua Ford Gran Torino del ‘72, un’auto iconica derivante dal passato, proprio come lui. Roso dai suoi conflitti interiori (oltre che da un tumore ai polmoni), tormentato dal suo trascorso, la sua personalità subirà profondi cambiamenti nel corso della storia. Walt, in apparenza razzista (“Quanti topi di fogna possono entrare nella stessa stanza?” si chiede all’inizio del film guardando la festa organizzata dai suoi vicini orientali), scoprirà alla fine di essere molto più simile a quei “musi gialli” che ha combattuto in guerra piuttosto che ai suoi stessi figli e nipoti che non bramano altro che la sua eredità.
Ancora una volta Eastwood interpreta un eroe duro e solitario. Gli occhi e l’espressione son sempre gli stessi, dai tempi della “Trilogia del Dollaro”: di ghiaccio. Ma la personalità è più matura, più complessa, più umana. È come se si respirasse la vicinanza della morte e l’esigenza di dare un significato a tutto. I tempi delle spericolate sparatorie leoniane sono ormai lontani. C’è voglia di redenzione adesso. Basti vedere il catartico sacrificio finale del protagonista (dal sapore cristologico nell’immagine di un Walt esanime “crocifisso” a terra) che sembra lasciare un messaggio contro la violenza, la quale non rappresenta una soluzione definitiva, perché non fa altro che richiamare altra violenza, in un circolo vizioso di sangue che si autoalimenta.
Sergio Leone diceva che Clint Eastwood era una maschera più che un attore e che possedeva solo due espressioni: con cappello e senza cappello. Ebbene, in Gran Torino Eastwood non porta nemmeno il cappello. Ciononostante riesce a dar vita a un personaggio profondissimo e indimenticabile, un uomo burbero e di poche parole, schifato dal presente e attaccato ai valori di un passato che non c’è più. Un uomo che “ne sa più della morte che della vita”. È incredibile come con quell’unica espressione di cui dispone (senza cappello), Eastwood riesca a esprimere tutta la gamma delle emozioni umane.
La regia è, come al solito, asciutta e lineare, tecnicamente perfetta. Lo spettatore si lascia andare alla visione e ha l’impressione che sia tutto molto semplice, anche ciò che non lo è. Nessuna retorica. Narrativamente irreprensibile. Plauso ai dialoghi, diretti e efficacissimi, in linea con lo stile registico. Profondissimi, pur nella loro brevità, gli scambi di battute col giovane padre Janovich, spassosissimi quelli con il barbiere italiano Martin. Perfino nel suo testamento, Walt non rinuncia al suo “stile”: “E vorrei lasciare la mia auto del ’72, Gran Torino, alla persona che più la merita: Thao Vang Lor. A condizione che tu non scoperchi il tetto come uno stronzo messicano; che non ci dipingi quelle ridicole fiamme come un qualsiasi coatto bianco e che non ci metti sul retro uno di quegli spoiler da checca che si vedono su tutte le macchine degli altri musi gialli: fa veramente schifo. Se riesci a non fare tutte queste cose è tua”.
Clamorosamente snobbato agli Oscar (nessuna candidatura), Gran Torino è un’opera struggente e intensa che tocca moltissimi temi: il razzismo, la vecchiaia, il bullismo, il militarismo, la famiglia, l’amicizia, la criminalità, la religione ma, soprattutto, è un film sul cambiamento che può e deve esserci (nelle persone singole e nella società di cui fanno parte). Gli ideali di una vita possono crollare in attimo, e con essi anche i pregiudizi. I nemici diventano amici. I cattivi diventano buoni. “Una storia – ha commentato lo stesso Eastwood – che dimostra che non si è mai troppo vecchi per imparare ad abbracciare gente che nemmeno conosciamo”. Emblematicamente sarà Thao, il piccolo meticcio “adottato” da Walt (il tema padre-figlio si ripropone nella recente filmografia eastwoodiana), a guidare nel finale del film la Gran Torino del vecchio dal passato verso il futuro.
Uno dei capolavori del regista statunitense che, alla soglia degli ottanta, dimostra di aver ancora molto da dire al pubblico (e forse anche a se stesso). Punto di arrivo artistico e morale che lascia spiazzati. Imprescindibile per chi ama il regista e l’attore. O il cinema in generale.
Felice Sangermano
08/01/2019