Qualcuno mi ricordava di un concetto che assai spesso affermava Gragnaniello: “Per arrivare al San Carlo,pochi metri in linea d’aria da casa mia, ho impiegato 40 anni“. Ho sorriso ed ho rivisitato la mia similitudine per raggiungere il Don Alfonso. Stesso tempo. Credo con lo stesso desiderio. Stefano guida e Giovanni è l’anfitrione della sortita. Traffico d’ordinanza e chiacchiere in libertà. All’arrivo ci prelevano l’auto. Da quel momento siamo consegnati alla più alta forma di professionalità. Non è solo ristorazione. Riduttivo pensarlo. Mai stato soli da lì alle prossime quattro ore. Reception ed abbracci. A Giovanni. Ha rapporti di parentela futura. Il vialetto è lastricato. Un forte,fortissimo odore di limoni mette di ottimo umore. Sono riconciliato. Noto un laboratorio. Mi dicono che lì arrivano artisti stellati da ogni dove. Sperimentano con gli eroi nostrani. Mascherine e livrea. Per un aperitivo al pergolato. Il sole non da scampo. Ci dicono di combatterlo con un beverone di aroma fruttato. Fresco, si accompagna ad un raffinato grana. E le tartine, delicate. Passaggio obbligatorio al bagno e scortati con estrema gentilezza in sala. Stefano è silenzioso. Io osservo, e che sennò!
Giovanni raccoglie tributi. È amato, indiscutibilmente. Una dolce ragazza, con la sua ala protettiva, ci spiega tutto quello che arriva sul desco. Mica è facile intuire. Sei frastornato da un sapore mai sentito prima. Ancor di più il mix. Di odori e fragranze. Tocchi, assaggi fulminanti, su pietre levigate. Poi antipasto di dentice. Ma il cuore. Risotto d’astice, con lo stesso carpaccio, e burrato. Da lasciarci il cuore. Spaghetti su letto di crema di tonno. Intorno sgombro, che si tagliava con lo sguardo. Una passeggiata fuori. Un pensiero. Peccato finirà troppo presto. E, naturalmente, non è andata così. Ho pensato a Gianni Brera. Maestro di cibo e scrittura. E di molto altro, francamente. Mi dicono che era un cliente affezionato. Ho sorriso. E poi mi raccontano di Veronelli. Mi fanno vedere i libri di chiunque abbia dato giudizi e stelle. Un armadio. E me lo schiude, in modo leggiadro, come lei, Simona. Tanto per far onore al suo modus, si incarica d’accompagnarci al pezzo forte della tenuta. Le cantine. Ora, che si possa credere o meno, io sono rimasto sgomento. Scendo giù di alcuni piani. Ventilazione assistita, ma di quella buona. Bottiglie dappertutto. Stipate e sistemate. Prezzi da brivido. Come quello che ci aspetta, quando siamo invitati a scendere per un budello, dicono in profondità di 35 m. È il terminale di un pozzo. Ed ancora più giù.
Appesi i provoloni del Monaco. Chili di muffa. Con una spazzolata poi viene servito. Roba da restarci. Dalla bontà. E lo dice chi l’ha assaggiato. Mi convincono a risalire con la promessa dei dolci, in arrivo. La sala è quella, la tavola è cambiata. Colori. Tanti. Caleidoscopio di colori. Mi è rimasto impresso il cannolo (la torre) di caffè. È verticale. Lo lesioni col cucchiaino e fuoriesce,ordinata,una lava marrone. Crema o nettare? Ad onor del vero, chi era seduto con me avrebbe dato tutto per riassaporare la crema nel limone svuotato. Dico basta. Voglio restare un momento assorto. Concepire meglio. Ma mi raccolgono ancora più affettuosi di prima. Conosco lo chef. Nicola Pignatelli. Alto, scuro, sorriso franco. Bello come un dio indio. È felice per me. Per noi. Mission raggiunta. Finiamo a parlare di orologi con un caffè che non si poteva rifiutare. Mi accompagnano pure alla vettura e mi fanno omaggio di pasta ed una pubblicazione. Io, che con le parole ci vivo, ammutolisco. Li guardo, li saluto e combatto con la nostalgia. Mi rendo conto che da lì in avanti mi aspetteranno tante litigate. Come posso sedermi a mangiare, ora, normalmente? Niente è come prima. Don Alfonso, se chiudi gli occhi, credo, il Paradiso.