L’insostenibile finale di BoJack Horseman

di Felice Sangermano

Il 31 gennaio, dopo 6 stagioni — un paio in meno di quanto avrebbe voluto l’autore Raphael Bob-Waksbergsi è conclusa una delle serie tv animate più originali e profonde degli ultimi anni. Se non l’avete già capito (e dovreste), stiamo parlando di BoJack Horseman, un prodotto targato Netflix, il colosso dello streaming moderno così spesso vituperato dalla vecchia guardia cinefila, eppure è innegabile che sappia regalarci gioielli del calibro di The Irishman (tanto per fare un nome recente) o, per l’appunto, BoJack Horseman.

La serie animata del cavallo antropomorfo (che ha già ispirato una pletora di nuove animazioni per adulti) ci ha fatto sperimentare tutta la gamma d’emozioni, toccando temi delicatissimi e quanto mai attuali, come i traumi derivanti dal passato, la depressione, la malattia mentale, le dipendenze e l’abuso di sostanze, le violenze sessuali, il senso di colpa e l’insoddisfazione di sé, il disagio esistenziale e la spersonalizzazione insita nella società moderna. Perché in fondo, come ha dichiarato Paul F. Tompkins (doppiatore di Mr. Peanutbutter) la storia di BoJack e compari racconta l’universale bisogno di capire chi siamo davvero.

E non lo fa nel solito modo buonista a cui siamo abituati, dal momento che la scoperta della nostra vera identità non porta necessariamente al lieto fine. Il male connaturato in noi è talvolta inestirpabile, anche se ne prendiamo coscienza. Tutta la serie è in effetti attraversata da un senso di irrimediabilità, che trova il suo apice nel finale (magnifico) che ribadisce l’impossibilità di salvarsi. Almeno per alcuni. Perché certe scelte, azioni e modi di essere sono definitivi e così tremendi da non poterci neppure imparare a convivere. La morale cristiana di redenzione e salvezza lascia spazio all’eterno uroboro nietzschiano che non prevede alcuna sorta di riscatto, né ora né mai.

Nichilismo? Certo. Pessimismo cosmico? A zaffate. Eppure ci sono state anche tante risate. Ma quel nodo allo stomaco mentre guardavamo la serie non se n’è mai andato. La verità è che Bojack parla di tutti di noi ed è per questo che fa così male. Un prodotto che ha saputo esprimere egregiamente le ansie e le inquietudini della società moderna, costringendoci a uno spietato viaggio introspettivo, alla fine del quale ci si ritrova tremendamente soli. Come Bojack e Diane sul tetto della sala dove si festeggia il matrimonio di Princess Carolyn. In un cerchio che si chiude, nel finale assistiamo a uno dei dialoghi più belli e umanamente intensi dell’intera serie. Autentico, struggente e tremendamente definitivo.

Dopo tante parole, fra i due amici non resta che il silenzio adesso, una frattura che non si ricomporrà più. Come le loro vite. Ci hanno provato e riprovato, non c’è stato niente da fare, né ci sarà mai. Sulle note di Mr. Blue di Catherine Feeny (canzone non certo scelta a caso) scorrono i titoli di coda di una delle serie più autentiche e umane di sempre, capace di lasciare un segno indelebile sulle nostre anime, così come su tutta la serialità.

 

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