“La casa dalle finestre che ridono”: storia di una calma apparente

di Vittorio Paolino Pasciari

La casa dalle finestre che ridono è un film di genere thriller-horror del 1976 diretto da Pupi Avati. La pellicola ha per interpreti principali Lino Capolicchio (Stefano), Francesca Marciano (Francesca), Gianni Cavina (Coppola), Giulio Pizzirani (Antonio Mazza), Eugene Walter (don Orsi), Pina Borione (Laura Legnani), Pietro Brambilla (Lidio), Ines Ciaschetti (portiera), Vanna Busoni (Maestra), Bob Tonelli (Solmi) e Arrigo Lucchini (droghiere). Il film si è aggiudicato il premio della Critica al Festival du Film Fantastique di Parigi ed è tutt’oggi considerato un cult movie.

TRAMA Stefano è un giovane restauratore a cui, per intercessione dell’amico Antonio, è stato affidato dal sindaco di un paese nella provincia di Ferrara l’incarico di riportare alla luce un macabro affresco situato in una chiesa nella campagna circostante. L’opera che raffigura il martirio di San Sebastiano è stata dipinta da Buono Legnani, folle pittore morto suicida vent’anni prima e noto come “il pittore delle agonie”. Stefano rimane molto affascinato dall’affresco, ma pochi colloqui con il parroco don Orsi ed altre persone del posto bastano a convincerlo che tanto l’opera quanto l’autore non godono di altrettanta stima fra la gente del paese. Alcune telefonate anonime che lo invitano ad andarsene rinunciando al restauro e qualche sibillina frase di Coppola, iracondo e alcolizzato tassista del luogo, gli insinuano il sospetto che dietro il dipinto ed il suo autore si nasconda un qualche mistero che la morbosa sonnolenza del paese non riesce completamente a celare. La conferma ai suoi sospetti arriva dall’amico Antonio, che gli preannuncia sconvolgenti scoperte legate ad una “casa dalle finestre che ridono”, vecchia abitazione del pittore suicida e delle sue sorelle. La morte improvvisa dell’amico che viene quasi ignorata dalle autorità del luogo spinge Stefano a svolgere delle indagini personali in cerca della verità, rischiando la vita sua e quella di Francesca, giovane maestra con cui nel frattempo ha intrecciato una relazione.

ANALISI La trama scorre lenta rivelando, attraverso il flashback, la storia di un pittore reso folle dalla sua arte, descrivendo le indagini del restauratore che si muove in un contesto in cui fin da subito lo spettatore riesce a scorgere qualcosa di losco e misterioso che nessuno vuole rendere noto. Fra immagini che sfiorano il surreale in un’apparenza fin troppo tranquilla e omertosa, la suspense cresce e raggiunge picchi degni dei Classici dell’horror psicologico. Se le riprese e gli effetti sono rozzi, la maestria dell’uso della cinepresa rende l’artigianalità del Cinema nostrano del periodo (’70-’80) un impeccabile sostegno ad un realismo che rende la storia più che verosimile. Non mancano momenti che rasentano il gore nelle uccisioni che seguono veri rituali di tortura in nome di una follia pura. E quando si scopre la spaventosa verità nascosta pare di poter giungere ad una soluzione di salvezza per il protagonista. Ma ecco sopraggiungere l’ultimo allucinante tocco da maestro in un colpo di scena che offre un finale sospeso a rendere il prodotto un autentico gioiello in celluloide per gli amanti del genere qui più che degnamente rappresentato.


Pupi Avati

GENESI DEL FILM Il regista bolognese Pupi Avati, all’anagrafe Giuseppe Avati, ha tratto l’idea per la realizzazione del film da un episodio della sua infanzia:

Nel comune dove risiedeva fu aperta la tomba di un prete, ma i resti rinvenuti appartenevano misteriosamente a una donna. La zia del futuro regista, per farlo star buono quando era bambino, lo minacciava del possibile arrivo del “prete donna”, spauracchio da lei inventato sulla scorta del fatto suddetto.  

QUALCHE CURIOSITÀ Le riprese si sono svolte in cinque settimane (aprile e maggio 1976) a Comacchio e Minerbo, paesi dell’Emilia-Romagna, sebbene i titoli di coda riportino i De Paolis In.Ci.R di Roma per motivi puramente burocratici. La casa che dà il titolo al film era in origine un casolare, non più esistente oggi, situato presso Malalbergo (Bologna). Quando dovettero girare la scena dell’omicidio di Antonio Mazza, la troupe si trovava a Comacchio davanti al finto Albergo Italia e, parole del direttore di fotografia Cesare Bastelli, alle 21.06 del 6 maggio 1976, furono avvertite delle scosse (Terremoto in Friuli, 1976) talmente forti che le campane della chiesa a pochi metri di distanza si misero a suonare da sole (nella scena un occhio attento nota la ripresa ‘tremante’ per pochi secondi).

UN PICCOLO GIOIELLO ITALIANO Con queste parole il critico Paolo Mereghetti cita il film nel suo Dizionario dei Film (2006) :

[…] l’dea vincente di Avati […] è trasformare la Bassa padana, assolata, sonnacchiosa e con tanti scheletri nascosti negli armadi, nel teatro ideale per un horror. All’epoca venne notato dalla critica, ma solo in seguito è diventato un cult. Bellissimi il colpo di scena conclusivo […] ed il finale sospeso.

Fra i punti di forza del film spicca una regia che sa usare le inquadrature in maniera perfetta e suggestiva. Gli esterni in cui regna una calma rurale sono un cliché classico per dissimulare il male segreto che emerge a poco a poco stuzzicando l’ansia dello spettatore. Mezzi efficaci ad alimentare la climax ascendente di emozioni sono i ricordi di passate e perverse ispirazioni in perfetto parallelismo con ancora più agghiaccianti scoperte nel presente. Le interpretazioni vengono rese con una spontaneità più che convincente fino al picco raggiunto nel finale per una storia che, stimolando le emozioni e risvegliando le paure, mostra quanto una normalità fin troppo accentuata nel chiuso di un contesto rurale possa rivelarsi terreno ideale in cui il male perverso metta radici.

CULT INQUIETANTE PER APPASSIONATI.

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