“Gli uomini d’oro”: un’intrigante crime story all’italiana

di Vittorio Paolino Pasciari

Gli uomini d’oro è un film del 2019 diretto e montato da Vincenzo Alfieri. La pellicola è ispirata ad un fatto di cronaca avvenuto a Torino nel 1996 ed ha per interpreti principali Fabio De Luigi (Alvise Zago), Edoardo Leo (il Lupo), Giampaolo Morelli (Luigi Meroni), Giuseppe Ragone (Luciano Bodini), Mariela Garriga (Gina), Matilde Gioli (Anna), Susy Laude (Bruna), Gianmarco Tognazzi (Bouique) e Guglielmo Poggi (Molino).

TRAMA Torino, 1996. Luigi, impiegato postale con la passione per il lusso e le belle donne, ha sempre sognato la pensione e una vita in Costa Rica. Quando il sogno si dissolve scopre di essere disposto a tutto, persino a rapinare il furgone portavalori che guida tutti i giorni, perché la svolta della vita è proprio lì, alle sue spalle. Un colpo grosso, un piano perfetto e per realizzarlo avrà bisogno dell’aiuto del suo migliore amico Luciano e dell’ambiguo collega Alvise. L’ingresso nella faccenda di veri criminali, l’ex-pugile e sicario “il Lupo” e Boutique, sarto d’alta moda e strozzino, quando il colpo riesce, non senza imprevisti, innesca una serie di tensioni e tragici eventi. Ognuno alla fine scoprirà a sue spese che il crimine non è per tutti e per degli uomini qualunque frustrati esso si rivelerà un gioco troppo grande e pericoloso.

ANALISI L’azione scorre veloce mentre la trama è scandita in tre capitoli collegati da un intrigante uso del flashback. Ognuno dei personaggi ha una vita frustrata e desidera un riscatto facile. Se l’inizio mostra lati comici nel mettere in luce l’incapacità di comuni dipendenti dello Stato che si improvvisano ladri, è però solo un preludio. Nel secondo capitolo il tono si fa drammatico introducendo quello che è il vero mondo criminale rappresentato dallo strozzino e dal suo tirapiedi. La tragedia esplode, come alla fine di un turbinio di emozioni contrastanti, nel capitolo finale, quello che mostra quanto alla fine il gioco pericoloso supera e schiaccia tre dei personaggi coinvolti nel colpo. E se la fine che coglie chi alla fine è colpevole solo di essere troppo ingenuo sembra l’ennesima denuncia della crudele realtà, l’inaspettata consolazione postuma che chiude la storia è un riscatto per chi si è lasciato sopraffare dalla disperazione di un’esistenza difficile.

Uomini d'oro, una stupefacente pagina di storia

“UOMINI D’ORO: termine giornalistico che identifica gli autori di furti molto redditizi messi a segno grazie a piani perfettamente congegnati e soprattutto… senza vittime.” (tag-line del film)

IL FATTO DI CRONACA Nel 1996 Domenico Cante di Bussoleno e Giuliano Guerzoni erano due dipendenti delle Poste di Torino. Ogni giorno partivano con un furgone, scortato dalla polizia, dal deposito di Corso Tazzoli per prelevare denaro, assegni e vaglia postali in dieci uffici della città e poi consegnare il tutto alla sede centrale di Via Nizza. Il 26 giugno i due decisero di mettere in atto un furto sostituendo il contenuto nei sacchi con carta straccia di pari peso, grazie all’ausilio di un complice, il pensionato Enrico Ughini di Felizzano che, nascosto in un vano blindato presente all’interno del furgone stesso, effettuò la sostituzione. Il movente che spinse Bussoleno e Guerzoni, colleghi e amici di lunga data, è da attribuirsi all’insoddisfazione della propria vita lavorativa e familiare. Il piano prevedeva la fuga in Costa Rica il giorno successivo alla rapina e contattarono Ivan Cella, barista valsusino, per munirsi dei passaporti necessari all’espatrio.

Il bottino della rapina ammontava a 2 miliardi e 52 milioni di lire in contanti più assegni per 3 miliardi, questi ultimi impossibili da incassare. Inoltre, per un errore compiuto da Ughini nelle operazioni di sostituzione, altri 557 milioni di lire vennero dimenticati nel furgone, lasciando così la prima di numerose tracce che avrebbero portato allo smascheramento della banda improvvisata. Diciassette giorni dopo il fatto, un contadino ritrovò in un noccioleto nei pressi di Bussoleno i corpi di Guerzoni e Ughini, uccisi a colpi di pistola la stessa notte della rapina. A commettere il delitto furono Cante e Cella all’interno di un camper di proprietà dello stesso Cella. Un litigio sulla spartizione del bottino o il pericolo dovuto all’inaffidabilità dei due furono le probabili motivazioni del delitto.

Cante fu arrestato quasi subito quando la moglie Gabriella Regis smontò il suo alibi per la notte del duplice omicidio. Condannato a ventotto anni e nove mesi di carcere e già provato da due infarti, muore in prigione il 30 novembre 2004. Ivan Cella e la fidanzata Cristina Quaglia riuscirono a fuggire in Albania ma vennero arrestati a Tirana nel dicembre 1996. Dopo due mesi di detenzione riuscirono a evadere dal carcere approfittando dei tumulti provocati dalle truffe finanziarie avvenute nel paese (Anarchia Albanese del 1997). Trovarono rifugio in Bolivia dove furono infine arrestati ed estradati alcuni mesi dopo. Cella confessò nel gennaio 1998, sostenendo di aver perso il bottino in investimenti finanziari albanesi falliti, e fu condannato in via definitiva a ventotto anni e otto mesi di carcere. Nel febbraio 1998 Cristina Quaglia fu condannata a due anni per favoreggiamento, mentre due amici di Ughini, Giorgio Arimburgo e Pasquale Leccese, vennero condannati rispettivamente a due anni e quattro mesi e due anni per ricettazione e per aver ricevuto 50 milioni in cambio dell’organizzazione della fuga in Costa Rica. Il giorno prima di morire Ughini consegnò alla sua ex-fidanzata di Alessandria, Cinzia Bononi, 10 milioni di lire e altrettanto fece Guerzoni con una parrucchiera di Strevi, Antonina Caruso; per questo vennero condannate per ricettazione. Il resto dei soldi non fu mai più ritrovato.

LA FINZIONE IN CELLULOIDE La rapina alle Poste di Torino del 1996 ha avuto ampio risalto nelle cronache per l’ammontare delle somme rubate (da qui il soprannome dato alla banda “gli uomini d’oro”) e per l’efferatezza degli omicidi subito dopo la rapina. Già nel 2000 è stato prodotto un film ispirato a questo fatto di cronaca: Qui non è il paradiso, diretto da Gianluca Maria Tavarelli e con protagonisti Fabrizio Gifuni, Valerio Binasco, Ugo Conti e Adriano Pappalardo. Non è risultato un grande successo di critica.

“Se ne facessero un film comincerebbe come I Soliti Ignoti di Monicelli e finirebbe come Le Iene di Tarantino”. Con queste parole il giornalista Meo Ponte, in un articolo pubblicato su “Repubblica”, si riferiva agli Uomini d’Oro come appellativo dato alla banda dai giornali del 1996. Con la sua seconda prova di regista Vincenzo Alfieri mostra più fedeltà ai fatti di cronaca che comunque vengono romanzati per la finzione scenica e dimostra coraggio nel tentativo di combinare elementi comici con il dramma poliziesco.

Il risultato finale è un crime italiano che diverte, intriga ed emoziona. Gli interpreti, fra cui alcuni volti noti in irresistibili rivelazioni nostrane (Smetto quando voglio), sono bravi e un occhio attento non può non scorgere, d’accordo con Ponte, chiari elementi che strizzano l’occhio al maestro Monicelli (il colpo che può cambiare la vita in opposizione all’incapacità dei ladri improvvisati richiama I soliti ignoti) e al maestro del pulp Tarantino (la trama divisa in episodi non contigui ma incastrati e rivelati da un impeccabile uso del flashback).

INTRIGANTE E SPIAZZANTE PRODOTTO NOSTRANO.

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