Attacchi alla libertà d’espressione e nessuna solidarietà tra giornalisti: cosa ha mostrato davvero la vicenda del figlio di Salvini sulla moto d’acqua della Polizia

di Francesco Mazzocca

La vicenda dell’utilizzo della moto d’acqua della Polizia di Stato da parte di Matteo Salvini sta diventando una battaglia per la libertà di espressione. Perché o,ltre il fatto che resta un cattivo esempio dato da un’istituzione nel momento in cui utilizza un mezzo in dotazione alle forze dell’ordine solo
per fini ludici, ciò che colpisce sono gli strascichi provocati dalle reazioni dei protagonisti, ma anche dal silenzio degli operatori dell’informazione. Da un lato Matteo Salvini che durante una conferenza stampa apostrofa pesantemente il giornalista che gli ha rivolto una domanda sull’accaduto, dall’altro i colleghi del malcapitato giornalista, rimasti impassibili di fronte alle esternazioni del Ministro  dell’Interno.

Momenti di insofferenza si erano già manifestati in occasione del fatto stesso, quando il giornalista di Repubblica aveva ripreso con la sua telecamera il figlio di Salvini in sella alla moto d’acqua della polizia: uno dei poliziotti ha intimato al giornalista di interrompere le riprese, impedendo in questo modo il normale svolgimento della sua attività giornalistica. Non contenti, durante la conferenza stampa che si è tenuta nei giorni successivi, il Ministro dell’Interno non solo si è rifiutato di rispondere alla domanda del giornalista, ma ha fatto anche delle battute che sembravano delle insinuazioni non piacevoli. Insomma, un’altra manifestazione di disagio del Ministro di fronte al dialogo, alle domande, al confronto. Come successo nell’aula parlamentare al momento della discussione sui chiarimenti del caso Russia, con il grande assente Salvini che non ha partecipato alla seduta.

Un copione che si ripete ormai costantemente, con Matteo Salvini che rifiuta ogni tipo di confronto democratico con giornalisti e colleghi, quasi come se potesse far tutto senza tener conto delle conseguenze. Conseguenze che, almeno in termini di immagine, ci sono state, sia per Salvini che per i colleghi del giornalista attaccato dal Ministro: la stampa estera, infatti, oltre ad avvicinare la figura di Salvini ai modi di fare di Trump, non ha esitato a sottolineare l’atteggiamento di menefreghismo dei colleghi durante la conferenza stampa, incapaci di esprimere il proprio dissenso di fronte una eclatante manifestazione di riduzione della libertà di espressione.


Perché la questione non è più l’utilizzo di un mezzo delle forze dell’ordine da parte delle istituzione, senza motivo; il tema è soprattutto di garanzia di libertà di stampa e di informazione, che esce fuori in tutta la sua gravità ogni qualvolta l’informazione incontra la politica. Impedire a un giornalista di
fare domande significa impedire di fare il suo lavoro, ma nello stesso tempo impedire anche di fare una corretta informazione, un interesse non più del solo singolo giornalista ma di tutta la collettività, ovvero l’interesse a conoscere la verità attraverso il confronto. Ed è per questo che l’assenza dei colleghi a difesa del giornalista è un’assenza pesante, grave: perché si possono non condividere le idee di un
collega, ma il sacrosanto diritto di fare informazione non può venir meno, perché è un diritto di tutti. Paradossalmente, gli stessi colleghi rimasti in silenzio avrebbero potuto trovarsi al suo posto, ricevendo probabilmente lo stesso trattamento. O, addirittura, potremmo immaginare un ministro di colore politico diverso che avrebbe lo stesso atteggiamento con i giornalisti ora rimasti senza parola. E sarebbe, allo stesso modo, sbagliato, perché, come ribadito la libertà, di informazione è di tutti e prescinde da ogni colore o appartenenza politica

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