Gli italiani non vogliono più andare a votare e lo hanno dimostrato chiaramente in questa tornata elettorale. Le elezioni amministrative del 2021 hanno rappresentato il punto più alto toccato dal cosiddetto partito degli astensionisti, ovvero di coloro che per una precisa scelta o per disinteresse hanno preferito non recarsi alle urne. I dati sull’affluenza sono drammatici perché dimostrano l’astensionismo più alto di sempre. Al primo turno la percentuale non è andata oltre il 53% degli aventi diritto al voto, con un calo (fisiologico) al ballottaggio, quando non è stato raggiunto nemmeno il 44% degli aventi diritto al voto.
Questi sono dati allarmanti e significativi, con una chiara disaffezione alla politica, alla partecipazione. Non votare significa non partecipare e significa, in definitiva, non essere rappresentati. Perché, in fin dei conti, gli italiani non si sentono più rappresentati dalle forze politiche, sia a livello nazionale che a livello periferico. Di certo, le elezioni amministrative, rispetto alle politiche, hanno meccanismi differenti e seguono logiche non identiche, ma proprio perché si votava per i rappresentanti dei comuni c’è ancora più da riflettere.
Le cause di questo allontanamento sono parecchie: si può partire, innanzitutto, dalla ormai conclamata incapacità di rappresentanza da parte delle compagini politiche, ad ogni livello. A partire dal contesto nazionale e dalla poca empatia che i rappresentanti hanno mostrato verso la cittadinanza, in seguito alla pandemia. Le risposte alla crisi economica, durante e dopo la pandemia, sono state insufficienti rispetto alle esigenze e alle richieste di tante categorie di lavoratori, abbandonati al loro destino e lasciati in condizioni economiche disperate. Molte aziende sono state costrette a chiudere, altre hanno tirato avanti fino allo sfinimento, licenziamenti e disoccupazione che hanno toccato livelli altissimi.
Sembra quasi essersi creata una frattura tra una parte della società, che non ha minimamente risentito della pandemia, e l’altra stragrande maggioranza della popolazione, lasciata quasi senza via d’uscita. Un ultimo esempio è la polemica, per certi versi inutile e per altri sicuramente più sensata, inaugurata da una certa parte del sistema politico verso la misura assistenziale del reddito di cittadinanza: un provvedimento giusto nelle intenzioni, ma applicato in maniera insoddisfacente perché non accompagnato da serie politiche del lavoro, e questo è un problema trentennale del nostro paese che trova i suoi responsabili proprio in chi ha rappresentato per anni i cittadini. E che vuole, ancora una volta, tentare di rappresentare cittadini che non si riconoscono più in quelle forze.
Ma, oltre alle cause di natura strettamente “quotidiana”, questa crisi di partecipazione trova posto anche nella deflagrazione di proposte politiche che, nel loro percorso di scelte incoerenti, hanno perso gran parte del consenso costruito negli anni addietro. Si pensi innanzitutto al Movimento Cinque Stelle, nato con le migliori intenzioni di proposta “antisistema” (termine non proprio accettabile in un contesto di una democrazia parlamentare, ma che avrebbe dovuto indicare una diversità da tutti gli altri) e finito poi per fare alleanze governative con tutti i partiti, in un continuo di contraddizioni che ha coinvolto anche la propria organizzazione, la struttura interna e i programmi politici, più volte stravolti da harakiri di scelte.
Pensiamo poi al Partito Democratico, che uscì sconfitto alle precedenti elezioni politiche ma che si è ritrovato forza di governo, ancora una volta, con quelli che un tempo erano nemici giurati; stesso discorso per la Lega, che fa parte di un governo del quale contesta quasi tutte le scelte. Oggi, con una maggioranza governativa del tutti insieme e la figura dominante del Presidente del Consiglio, si è affievolita in maniera drammatica la forza dei partiti e la loro capacità di essere portavoce dei cittadini.
Il rischio più forte che può emergere da una maggioranza che ospita forze tra loro incompatibili, o comunque portatrici di visioni quantomeno contrapposte e non conciliabili, è la perdita delle rispettive identità, e quindi la diminuzione di parte del consenso che non può riconoscersi in alleanze con compagini poco affini. Se tutte le forze politiche diventano “uguali” i cittadini non avranno interesse a scegliere l’una o l’altra. La politica che non viene “votata” è una politica che non funziona e che non potrà mai dare risposte sufficienti alla popolazione. Se meno della metà degli aventi diritto al voto si reca alle urne vuol dire che il problema della partecipazione è molto grave. Perché, in fine dei conti, si tratta proprio della partecipazione, quella che consente alla popolazione di essere parte di processi decisionali.
In questo contano anche le riforme che negli ultimi anni hanno caratterizzato la rappresentanza: le leggi elettorali che non consentono all’elettore di esprimere una preferenza hanno allontanato sempre di più il cittadino dalla scheda elettorale; la riforma che ha sancito la riduzione del numero dei parlamentari, mascherata da un fantomatico risparmio per le casse dello Stato e quindi per ogni singolo contribuente, non ha fatto altro che accentuare il carattere ristretto della rappresentanza. Meno rappresentanti, meno posti in Parlamento, con partiti che sono costretti a fare ancora di più selezioni tra i propri candidati, con il rischio di piazzare sempre gli stessi nomi nei listini bloccati. Ecco perché, oltre ogni altro provvedimento di natura economica e sociale, occorre ripensare al grande errore di fondo della legge elettorale e delle riforme di sistema, che negli ultimi anni hanno sancito una sempre più evidente separazione tra il palazzo e la società. Non si tratta di visione semplicistica o di un pompato populismo che vuole, ad ogni costo, trovare un nemico: si tratta semplicemente di allargare, con tutti gli strumenti possibili all’interno di una democrazia parlamentare, la partecipazione del cittadino ai processi decisionali.
Quando si parla di astensionismo si tende ad immaginare quella disaffezione, quel disinteresse del cittadino verso la cosa pubblica. Ma analizzando le causa si può senza dubbio dire che non è il cittadino ad aver abbandonato la politica, ma il contrario: la crisi della partecipazione è l’incapacità dei partiti nel non saper più essere portavoce degli interessi della società e delle sue svariate sfaccettature.