Negli anni dopo il 2000 si è diffusa nel mondo del celluloide la moda delle trasposizioni live action di quegli indimenticabili pezzi animati di infanzia che sono i Classici Disney. In verità si può considerare un primo esperimento il film diretto da Stephen Herek, La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera (101 Dalmatians) del 1996, con un’irresistibile Glenn Close nella parte di Crudelia DeMon. Tuttavia, solo a partire dal 2016 sembra di poter vedere un prodotto degno dell’originale animato con Il libro della giungla, diretto da Jon Favreau. Da qui in poi prosegue la ricerca fra gli altri immortali dell’elenco lasciato dallo zio Walt.
Rientra in questo filone “Dumbo“, un film del 2019 diretto da Tim Burton con protagonisti Colin Farrel (Holt Farrier), Michael Keaton (V.A. Vandemere), Danny DeVito (Max Medici), Eva Green (Colette Marchant), Alan Arkin (J. Griffin Remington) ed i piccoli Nico Parker (Milly Farrier) e Finley Hobbins (Joe Farrier). La pellicola, adattamento cinematografico della storia scritta da Helen Aberson ed illustrata da Harold Pearl, è il remake in live action del film d’animazione del 1941 “Dumbo – L’elefante volante“, prodotto da Walt Disney.
LA TRAMA. La Grande Guerra è finita e Holt Farrier, ex star del circo che ha perso un braccio, ritrova la sua vita rivoltata come un calzino. Ritornato a casa, si dedica al suo circo ed ai suoi due figli Milly e Joe lavorando nuovamente al suo numero coi cavalli, anche se in generale la compagnia circense non se la passa molto bene. Il proprietario del circo, Maximilian Medici, punta su un cucciolo di elefante in arrivo ma, alla nascita del piccolo di mamma Jumbo, rimane interdetto e furioso, a causa delle sue orecchie fuori misura. Max allora affida a Holt il compito di prendersi cura dell’elefante appena nato, le cui orecchie giganti lo rendono oggetto di scherno. Milly e il fratellino, invece, si affezionano al cucciolo di elefante e scoprono che nasconde una straordinaria abilità: se stuzzicato da una piuma, Dumbo può volare. Tuttavia, dopo questa scoperta, l’imprenditore V. A. Vandemere e l’artista trapezista Colette Marchant si gettano a capofitto per trasformare lo speciale elefantino in una stella. A quel punto cominceranno le peripezie per Dumbo e i suoi amici.
Nel 1941 la casa di produzione fondata da Walter Elias Disney decise di produrre un film di animazione optando per uno stile semplice ed economico allo scopo di recuperare le perdite finanziarie provocate l’anno precedente da Fantasia (oggi ritenuto uno dei migliori film di animazione, grazie alla riscoperta con opportune modifiche dopo il 1945). Il risultato fu una commovente storia di riscatto che trattava il tema della diversità condannata e schernita dalla miopia di una normalità fra le più ipocrite, incapace di andare oltre le apparenze. Non è un caso che il contesto scelto fosse il mondo circense, un mondo solo in apparenza divertente e gioioso ma che, come la più pittoresca delle maschere da spettacolo, sempre nasconde un lato buio ai limiti della crudeltà (mai come oggi tristemente noto). Ancora adesso gli adulti che videro il film da piccoli non possono non considerare traumatiche scene come l’imprigionamento della mamma di Dumbo, colpevole solo di aver difeso il suo piccolo dalle angherie di giovani scalmanati e di guardiani più crudeli dei giovani quando la incatenano, o la massima umiliazione di vedere il piccolo elefante ridotto ad un vero fenomeno da baraccone in un’esibizione di clowns.
Questi ed altri traumi, come funziona con i Capolavori Disney, alla fine però vengono spazzati via in uno spettacolare finale che restituisce giustizia e riscatto all’elefantino contro tutte le angherie subìte. Memorabili in questo senso risultano le punizioni inflitte da Dumbo al gruppo dei clowns, al direttore del circo e, soprattutto, alle perfide elefantesse che lo avevano emarginato. La diversità esteriore con cui gli altri ti marchiano non è altro che quella qualità in più che semplicemente ti rende unico e speciale. La fiducia in te stesso risvegliata dai pochissimi amici veri che riescono a vedere oltre gli occhi è una grande lezione di vita. E il vero talento, così come la vera virtù, spesso si devono cercare dove invece non si vuole vedere.
Nel caso dell’elefantino dalle orecchie a sventola bisognava cercare un regista capace di trattare un tema difficile come quello della diversità e del riscatto in un’esistenza ai limiti della crudeltà per ottenere una commovente magia degna della famiglia Disney. Ebbene Tim Burton ha dimostrato, già con il suo prodotto più autobiografico (Edward mani di forbice, 1990), di possedere le qualifiche necessarie per questo nuovo esperimento in live action. Nella trasposizione qui offerta la storia dell’elefantino viene posta in parallelo con quella di un giovane padre che, reso storpio dalla guerra e vedovo, deve riscattarsi agli occhi dei figli ed allo stesso tempo cercare di andare avanti e sollevare da una crisi, che pare irreversibile, il suo piccolo mondo dello spettacolo.
Il tema dell’emarginazione del ‘diverso’ che diventa oggetto di scherno, da parte di alcuni membri del circo ma soprattutto degli spettatori, viene ripreso fedelmente durante il primo tempo. Riprodotto con uguale effetto è il trauma della separazione della madre dal suo cucciolo, un dramma che viene accentuato perché si riflette in quello dei giovani figli dell’artista circense storpio che hanno perso la mamma. Dal secondo tempo in poi il film prende una piega autonoma che vede contrapporsi l’intelligenza, e soprattutto l’umanità, dei piccoli Farrier all’avidità di quegli adulti senza scrupoli, rappresentati in modo perfetto dalla figura del manager Vandemere, che vogliono solo sfruttare a scopo di lucro le doti del piccolo Dumbo. Il finale sembra strizzare l’occhio a Free Willy e riprende un tema attualissimo che commuove per il duplice riscatto ottenuto, quello degli animali e quello del piccolo circo salvato e rinnovato al meglio.
IL CAST Michael Keaton e Danny DeVito diretti da Tim Burton mostrano, anche nei ruoli invertiti rispettivamente di cattivo vero e di furbetto poi pentito, lo stesso affiatamento già dimostrato in un precedente contesto più dark e quindi più vicino al regista che li ha resi immortali (Batman – Il ritorno, 1992). Eva Green è sempre affascinante anche nel ruolo di cattiva che alla fine si redime. Ruolo determinante ed impeccabile hanno i due giovani interpreti dei figli di Colin Farrel (molto bravo anche lui) nel ribadire una grande lezione: le vere bestie sono gli adulti che hanno perso il cuore ed i bambini possono sempre insegnare molto ai genitori che perdono le speranze.
Una sola canzone del Classico animato, la più commovente, viene riprodotta fedelmente nella traduzione italiana e nel contesto originale: l’imprigionamento di Mamma Jumbo. Nella scena in questione, e soprattutto dopo i titoli di coda, la voce di Elisa si dimostra degna dell’originale facendo sgorgare le lacrime nei cuori dei bambini ormai cresciuti.
I fan puristi che si aspettavano una riproduzione totalmente fedele all’originale disneyano possono storcere il naso e crogiolarsi nelle loro critiche. Chi ha un cuore non ancora inaridito dal presente non può non apprezzare il genio di Burton, capace sempre di commuovere mostrando il lato peggiore dell’uomo, oltre alla vera magia che è la purezza dell’innocenza nascosta sotto l’apparenza che ormai pochissimi occhi riescono ad oltrepassare. Unico effettivo punto debole può considerarsi il ritmo che scorre troppo veloce laddove invece si potevano approfondire meglio la personalità dei personaggi ed il tema del riscatto dallo scherno. Se il risultato non si può definire eccelso tuttavia, come libera trasposizione, Tim Burton ha saputo offrire un degno omaggio allo zio Walt.
Per i prossimi live action Disney, previsti rispettivamente a maggio (Aladdin) e ad agosto (Il Re Leone), le aspettative saranno maggiori, considerando i Classici di riferimento. Per adesso i fan più fedeli, ma aperti alle novità, potranno rilassarsi rivivendo in una nuova commovente prospettiva un Classico della produzione Disney che, come pochi, sa insegnare ad andare oltre le apparenze per sopravvivere alla vita sempre più crudele.