Dare della «mantenuta» a una donna che percepisce l’assegno di mantenimento dall’ex marito e pubblicare la frase su Facebook o su un altro social network determina una condanna per diffamazione aggravata dall’uso del mezzo di pubblicità. Esistono altre frasi che rientrano nella diffamazione? Secondo la Corte di Cassazione, affinchè sorga il reato di diffamazione non è sufficiente utilizzare toni forti e sprezzanti, ma non è neanche necessario usare parolacce e insulti. Ciò che è richiesto per la diffamazione è la sussistenza di un attacco personale gratuito che possa violare l’integrità morale o professionale della vittima. Pertanto, in caso di contestazioni tra ex o tra rivali in amore, è normale assumere un atteggiamento aspro, senza perciò ricadere nella diffamazione.
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha deciso sul ricorso presentato da una donna che aveva querelato la nuova compagna del suo ex marito. Quest’ultima aveva pubblicato sul proprio profilo Facebook delle espressioni offensive, del tipo: «Vai a lavorare invece di farti mantenere». Nonostante l’accertamento della condotta, il giudice non ha condannato l’autrice dei post poiché le espressioni erano state ritenute lecite. Per gli Ermellini, le espressioni utilizzate dalla donna non superano il limite della pacatezza, essendo circoscritte nell’ambito di una critica che esprime il proprio risentimento.
Si tratta di una polemica che non consiste in un attacco personale gratuito ma che è pertinente rispetto alla lite in atto. Secondo la Corte, dunque, si deve tenere conto del contesto dialettico in cui si realizza la condotta e appurare se i toni utilizzati dall’imputato non siano aggressivi dell’altrui reputazione, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato–