Chiedi alla polvere (Ask the dust) è il più celebre libro di John Fante, il terzo della saga che vede come protagonista l’italo-americano Arturo Bandini, un romanzo di formazione che narra la storia (autobiografica) di un giovane aspirante scrittore che “ama uomini e bestie dello stesso amore” e che negli anni della Depressione fugge dal Colorado e si trasferisce a Los Angeles, la Promise Land californiana, in cerca di fortuna.
«Ripensavo ai progetti che avevo fatto venendo qui, come tutti, in cerca di fortuna, celebrità, salute e donne affascinanti. Ma per me sarebbe stato diverso: io non ero venuto a cercare un futuro, ma a crearlo. Avrei scritto il primo grande romanzo su questa città e su chi era accorso qui da ogni parte…». Ma prima di riuscirci, Arturo dovrà farne di strada attraverso la polvere della città, scontrandosi con la povertà, la fame, le promesse disilluse dalla Depressione, le barriere ideologiche e razziali, passando per un amore cocente (e non corrisposto), quello per Camilla Lopez, cameriera messicana (o “principessa Maya” a seconda dei casi) “non abituata a essere trattata come un essere umano”, che diventerà la sua musa e la sua salvezza.
Erano trent’anni che Robert Towne, noto per l’indimenticabile sceneggiatura di Chinatown di Polanski, corteggiava l’idea di trasporre per il grande schermo il romanzo di Fante, ma l’adattamento di un capolavoro è un’impresa assai ardua e reca con sé dei rischi inevitabili. Ne vien fuori un film sentimentale a metà strada tra dramma e commedia, un’opera ben fatta e ben recitata che si lascia vedere e vive di momenti intensi, ma che sacrifica (e in parte tradisce) lo spirito più profondo del romanzo. Pur essendo apprezzabile di per sé, la trasposizione conserva ben poco della grandezza e della graffiante crudeltà dell’originale letterario. Laddove il romanzo di Fante esplorava i più disparati aspetti della vita raggiungendo vette liriche ineguagliabili, il film di fatto si ferma invece alla love story fra Arturo Bandini e Camilla Lopez, modificata per giunta in ottica romantica (e quindi almeno in parte snaturata): se nella pellicola Camilla ricambia l’amore di Arturo, nel libro è invece innamorata del barista Sammy, con tutte le conseguenze frustranti del caso per il giovane Bandini. Inoltre nel film la giovane messicana muore per via di una malattia non meglio specificata, mentre nel romanzo non si è mai ammalata, ma semplicemente abbandona Arturo sparendo per sempre. Conservata, invece, benché meno potente, la denuncia sociale presente nel romanzo riguardante i pregiudizi razziali e più in generale la paura dell’altro da sé.
Quella raccontata nel film è in fondo una bella storia d’amore, intensa e commovente, ma semplicemente non è la storia raccontata da Fante. Vale comunque la pena vedere il film di Towne? Sì, perché comunque qua e là il fantasma di Fante viene evocato in maniera efficace. E in mancanza d’altro (si tratta dell’unica trasposizione cinematografica del romanzo mai realizzata), sprazzi di Fante sono sempre meglio di niente. La fotografia caldissima e polverosa di Caleb Deschanel fa la sua parte.
Ottima la chimica fra Colin Farrell e Salma Hayek, rei però di essere troppo fighi, troppo glamour per interpretare credibilmente l’imbranato Bandini e la “dolce peona” Camilla Lopez. Ma nell’ottica commerciale in cui è girato il film (e che rappresenta il suo più grande limite) un mélo con due strafighi riscuote molto più successo. Impreziosiscono il cast comprimari d’eccezione come Donald Sutherland (il vecchio Helfrick) e Idina Menzel (Vera Rivken, la giovane ebrea col corpo sfregiato dalle ustioni).
Vibrante, struggente e disperato il libro. Apprezzabile la pellicola. È la differenza che passa fra un capolavoro e un’opera dignitosa. Fra i produttori del film figura Tom Cruise, ma adattare degnamente il romanzo di Fante era una mission impossible anche per lui.