“Castaway on the Moon”: la poesia del cinema coreano

di Felice Sangermano

Il cinema coreano, come tutto il cinema orientale in generale, è capace di sfornare gioielli che spesso rimangono sconosciuti al grande pubblico occidentale. Autori come Kim Ki-duk, Park Chan-wook e Bong Joon-ho (tanto per fare i nomi più famosi in Italia) ci hanno regalato capolavori pregni di una sensibilità molto diversa da quella a cui ci ha abituato Hollywood, aprendo una finestra su un mondo nuovo, tutto da scoprire. Un viaggio splendido che vi consigliamo caldamente di intraprendere. E, magari, potete cominciare da Castaway on the Moon, piccola perla del cinema coreano datata 2009 e diretta da Lee Hae-jun.

TRAMA  Un giovane impiegato, scaricato dalla ragazza e inguaiato dai debiti, tenta il suicidio gettandosi da un ponte di Seul che affaccia sul fiume Han. Il salto, però, non gli sarà fatale e la corrente lo trascinerà su un isolotto disabitato in mezzo al corso d’acqua. All’inizio lo sventurato cercherà di far ritorno in città, ma ben presto realizzerà che quella non sarebbe una vera soluzione: “Stupido. Anche se me ne andassi da qui non cambierebbe niente”. Accantonato momentaneamente i propositi di suicidio, l’uomo comincerà a vivere su quell’isolotto che a poco a poco diventerà la sua casa. Scoprirà di trovarsi così bene in quella condizione di isolamento che non vorrà più essere salvato: la scritta tracciata sulla sabbia cambia da help a hello e il naufrago non cercherà più di attirare l’attenzione delle imbarcazioni, ma si nasconderà accuratamente alla loro vista. L’unica persona ad accorgersi di lui è una hikikomori (termine giapponese per indicare chi sceglie di ritirarsi dalla vita sociale) che vive segregata da tre anni nella sua stanza, immersa nella realtà virtuale dei social, e lo spia attraverso il teleobiettivo della sua macchina fotografica con cui è solita scattare foto alla luna. Emarginati, ognuno a modo suo, da una società spietata e frenetica, i due comunicheranno a suon di messaggi nelle bottiglie e scritte sulla sabbia. Fino al toccante epilogo in cui, usciti dal proprio guscio di isolamento esistenziale, sperimenteranno finalmente un reale contatto.

Lee Hae-jun dirige in maniera suggestiva e poetica una pellicola che va ben oltre l’intento parodistico del famoso Cast Away di Zemeckis con Tom Hanks (a cui comunque i riferimenti non mancano). Castaway on the Moon è un’opera che brilla di luce propria e narra la storia di due solitudini che si incontrano in un mondo crudele e indifferente che schiaccia chi non si mette al passo. Lui non riesce a adeguarsi alle pretese sociali, sempre più pressanti, di produttività ed efficienza, un modus vivendi esasperato che non può che condurre alla malattia. L’ex fidanzata lo reputa un inetto e non si fa scrupoli a lasciarlo. Solo, praticamente invisibile (nessuno sembra notarlo quando sta per buttarsi giù dal ponte, nessuno sembra dargli considerazione a telefono), decide di prendere stabile dimora su quell’isoletta urbana piena di scarichi, ma allo stesso tempo verdeggiante e idilliaca, l’unica che sembra accoglierlo senza chiedergli nulla in cambio. E su quell’isolotto il giovane ritroverà sé stesso: la solitudine, in fondo, non è qualcosa di negativo di per sé.

Lei è una ragazza timida, insicura, che, complice anche un’escoriazione sulla fronte (di cui non viene narrata la storia), invece di farsi una vita vera al di fuori della sua stanza, decide di crearsi un’immagine virtuale dove appare bella, socievole, performante. Praticamente perfetta. “Non ho bisogno di uscire dalla mia stanza. Mi bastano pochi click e posso avere tutto quello che voglio” dirà la ragazza. E ancora: “Non importa se quello che faccio è reale o meno. Sono i commenti sul mio profilo che stabiliscono qual è la realtà”. Un personaggio che apre un delicato squarcio sull’agghiacciante realtà degli hikikomori: la giovane vive segregata fra quattro mura, dorme in armadio e passa le serate a fotografare la Luna, quella Luna che ritroviamo nel titolo e di cui la ragazza, in una delle scene più belle e surreali della pellicola, dirà: “Amo così tanto la luna. Non c’è nessuno lassù. E se non esiste nessuno, la solitudine non ha senso”.

Hikikomori lei, hikikomori anche lui nella sua isoletta, ripudiati dalla società, scelgono di ripudiarla a loro volta, vivendo isolati in mezzo a milioni di persone che nemmeno si accorgono della loro esistenza. Lui riorganizza la sua vita da moderno Robinson Crusoe (all’orizzonte, invece della distesa marina, c’è lo skyline di Seul, ma il senso di solitudine rimane lo stesso, anzi forse risulta ancora più accentuato dal caotico contorno metropolitano), riscoprendo il contatto con la natura, il piacere della noia, l’appagamento che deriva dalle cose semplici (come un piatto di spaghetti). Un ritmo di vita più umano. Lei, spiandolo, inizia a sentire sempre più forte il bisogno di uscire dalla sua stanza e provare un reale contatto umano. Due alieni. Due solitudini destinate a incontrarsi.

Il tessuto filmico si presenta ricco di metafore e simbologie. Su tutte, quella degli spaghetti, esplicitata per bocca del ragazzo delle consegne: “Mi ha detto che per lui gli spaghetti rappresentano la speranza”. La speranza, appunto, che è quello che serve per andare avanti. E grazie a quegli spaghetti il giovane acquisisce coscienza di non essere un inetto come la società (a partire dalla ex ragazza) vuole bollarlo. Quegli spaghetti nati dal nulla, ricavati a partire dal guano, aguzzando l’ingegno, mettendoci tutto sé stesso. Un piccolo grande obiettivo il cui raggiungimento ha un sapore diverso perché ottenuto senza contare su nessuno. La dimostrazione che ce la può fare con le sue sole forze.

Film delicato, grottesco, pieno di magica poesia: biglietti arrotolati nelle bottiglie, frasi scritte sulla sabbia, muri tappezzati da fotografie lunari, spaventapasseri in giacca e cravatta che ballano al sole, scene surreali in cui lei si libra in aria, un dito dietro l’obiettivo della macchina fotografica che aiuta il giovane a trainare la sua dimora a forma di anatra, il suono improvviso di una sirena, una città che tutt’a un tratto si svuota.

Opera sempre in bilico tra commedia romantica e dramma di denuncia delle crudeli logiche di una società schiava dell’immagine e del profitto, Castaway on the moon affronta tematiche profonde con ironia e leggerezza narrativa. 

Fotografia vivace, dai colori accesi. Regia di pregevole fattura, con immagini e sequenze fiabesche. Sceneggiatura che dosa sapientemente la comicità e il dramma, passando gradatamente dall’uno all’altro.

Un film che fa riflettere senza mai annoiare. Forse per essere felici non è necessario vivere seguendo gli schemi che la società ci impone. E, soprattutto, non è mai troppo tardi per rendersene conto e cambiare il proprio corso.

Castaway on the moon vi farà ridere e piangere, passando per lo stadio intermedio del sorriso. Un piccolo terremoto emotivo made in Coreache consigliamo a tutti di recuperare.

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