Fu il film più premiato agli Oscar del 2002, dove conquistò ben quattro statuette (su otto nomination): miglior film, migliore regia, miglior attrice non protagonista e migliore sceneggiatura non originale. Stiamo parlando di A Beautiful Mind, biopic del 2001 diretto Ron Howard (per quei pochi che non lo sapessero, il Richie Cunningham di Happy Days), liberamente — molto liberamente — ispirato all’omonima biografia scritta dalla giornalista statunitense Sylvia Nasar sulla vita del famoso matematico John Forbes Nash jr.
LA TRAMA Nash (Russell Crowe), talentuoso e stravagante studente alla prestigiosa Università di Princeton, si rifiuta di frequentare le lezioni (esse “ottundono la mente, distruggono il potenziale della creatività vera”) preferendo dedicarsi in maniera ossessiva alla ricerca della sua “idea originale”. Sostenuto soprattutto dal suo compagno di stanza Charles (Paul Bettany), egli riuscirà nell’impresa acquistando fama e un importante posto di ricercatore al MIT di Boston. Nello stesso periodo incontra Alicia (Jennifer Connelly), giovane studentessa di fisica che diventerà sua moglie e lo renderà padre. Quando tutto sembra volgere al il meglio, la vita di John verrà totalmente stravolta dalla schizofrenia, grave malattia mentale di cui però egli stesso si renderà conto di soffrire. Pur senza sconfiggerla mai del tutto, John, grazie alla sua “mente meravigliosa”, riuscirà tuttavia a conviverci e a tenerla a bada.
Cominciamo subito col dire che il film, pur ponendosi come biografico, è però piuttosto romanzato, o per meglio dire “ripulito” da parecchie scomode verità riguardanti la vita di Nash (e che invece sono presenti nella biografia — non autorizzata, va sottolineato — di Sylvia Nasar). In virtù di un perbenismo acchiappa-Oscar vengono lasciati fuori aspetti sgraditi, ma fin troppo significativi, come ad esempio le posizioni apertamente antisemite di Nash o le presunte esperienze omosessuali (nel 1954 Nash fu arrestato per atti osceni in luogo pubblico in un bagno di Santa Monica, circostanza che gli costò il licenziamento dalla Rand Corporation). Manca inoltre ogni riferimento ai rapporti sentimentali del matematico prima del matrimonio (soprattutto, non viene fatta menzione di David, il figlio illegittimo che Nash ebbe nel 1953 da Eleanor Stier, un’infermiera di Boston: il matematico non riconobbe mai il bambino, rifiutandosi di prendersi cura di lui e della madre, la quale gli intentò causa). Viene completamente taciuto anche il periodo di separazione (con divorzio) durato quasi dieci anni tra John e Alicia (la quale fu anche in procinto di risposarsi). Anche il finale del film, cosparso di melassa e retorica hollywoodiana, sul valore miracoloso dell’amore (“Io sono qui stasera solo grazie a te” dirà John dal palco del Nobel rivolgendosi alla moglie Alicia. “Tu sei la ragione per cui io esisto. Tu sei tutte le mie ragioni…”) non rispecchia accuratamente la realtà, che fu invece molto più prosaica: è vero che Alicia si trovava con lui il giorno della consegna del Nobel, ma Nash non le dedicò nessun discorso dal palco, probabilmente anche per via dei timori dell’Accademia di Stoccolma circa le condizioni psichiche del matematico. Last but not least, la stessa rappresentazione della malattia di Nash, una grave forma di schizofrenia paranoide, viene resa nella pellicola in maniera sostanzialmente diversa da come si manifestava in realtà: in effetti Nash non soffrì mai di allucinazioni visive (i personaggi del misterioso agente governativo Parcher, del compagno di stanza Charles e della sua nipotina sono del tutto inventati). I deliri più frequenti dello scienziato riguardavano invece il sentirsi destinatario di messaggi criptati di provenienza extraterrestre o la convinzione di essere l’imperatore dell’Antartide o capo di un governo universale o ancora il piede sinistro di Dio.
Howard, tecnicamente impeccabile, sceglie di narrare dall’interno della mente di Nash, presentando allo spettatore come reali i personaggi partoriti dalla sua schizofrenia. Il punto di vista è cioè quello del protagonista: vediamo coi suoi occhi, crediamo che sia reale quello che lui crede sia reale. Forte è il contraccolpo emotivo quando scopriamo (sempre insieme a Nash) che tutte quelle situazioni e quei personaggi sono solo il frutto della sua malattia mentale. In realtà, nel corso del film sono sapientemente disseminati alcuni indizi rivelatori, ma è improbabile che qualcuno riesca a percepirli durante la prima visione, quando l’attenzione è tutta rivolta ad altro (l’indizio più evidente comunque è quando la nipotina di Charles si mette a correre in mezzo a dei piccioni senza che questi si spostino o svolazzino via… segno che la bimba non esiste veramente, ma solo nella mente di Nash).
Russel Crowe, fresco di Oscar di miglior attore per Il gladiatore, dimostra le sue doti camaleontiche interpretando in maniera brillante un personaggio assai diverso dal generale Massimo Decimo Meridio del film di Scott. Menzione di merito anche per la bellissima Jennifer Connelly (convincente nel ruolo di Alicia, tanto da meritarsi l’Oscar come migliore attrice non protagonista), Ed Harris (nelle vesti di William Parcher, alias “l’eminenza grigia”) e Paul Bettany (il “prodigo compagno di stanza” Charles).
Film sul labile confine tra ragione e follia. Biografico, drammatico, sentimentale, con risvolti thriller. Girato e interpretato ottimamente. Eccellente la fotografia di Roger Deakins, dai toni caldi e accoglienti, che virano sul cupo quando Nash sprofonda nella malattia. Ron Howard non inventa nulla come regista, ma ama e sa raccontare le sue storie senza annoiare. L’accuratezza biografica appare però colpevolmente sacrificata sull’altare degli Oscar: troppi gli aspetti tenuti fuori dalla narrazione. L’immagine di Nash che se ne ricava appare poco veritiera. Così come il finale, toccante ma al limite dello stucchevole: un’altra strizzatina d’occhio al pubblico e all’Academy. L’impressione netta è che gli Oscar siano l’obiettivo finale a cui l’intera produzione tenda. Ed è questo il maggior limite del film. Nel complesso non si può definire un capolavoro, ma una buona pellicola, tecnicamente ottima, che tocca temi sensibili e rimane impressa nell’immaginario degli spettatori.
Immaginate di scoprire che le persone che amate non siano reali: benvenuti nell’inferno di Nash.