Il caporalato in Italia è una piaga: i dati

di Redazione Zerottouno News

In Italia il caporalato è una vera e propria piaga. I dati lo dimostrano, oltre che ai recenti fatti di cronaca. A parlarne in maniera più chiara è il recente Rapporto Agromafie e Caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto/ FLAI- CGIL che fotografa la situazione del biennio ottobre 2018-ottobre 2020 concernente lo sfruttamento lavorativo nel settore agro-alimentare e le criticità dei rapporti di lavoro dovute a contratti ingannevoli e a raggiri perpetuati a danno dei lavoratori. Il V Rapporto si compone di quattro parti, ciascuna focalizzata ad esplorare specifici ambiti che nell’insieme contribuiscono ad illuminare il fenomeno dello sfruttamento lavorativo. Il V Rapporto quantifica in circa 180.000 i lavoratori particolarmente vulnerabili, e quindi, soggetti a fenomeni di sfruttamento e caporalato.

La cittadinanza dei lavoratori infatti è motivo sovente di forti criticità e molto dipende dalla normativa non efficace: da una parte l’impianto
della “legge Bossi-Fini”, dall’altra i “Decreti Salvini” focalizzati troppo spesso solo sull’ accostamento in termini di sicurezza tra dell’immigrazione e criminalità. Non secondaria, poi, è l’attenzione posta alla recente regolarizzazione dei lavoratori stranieri in generale e, in particolare, di quelli occupati nel settore agro-alimentare. Le domande presentate al 15 agosto del periodo analizzato ammontavano a circa 207.542, di cui circa 30.694 riguardanti il settore primario.

Tra le maestranze straniere un posto di rilievo è dato dalla componente femminile: sia per la sua crescita quantitativa che si rileva nei processi migratori (si parla appunto di femminilizzazione dei flussi), e dunque di una accentuata presenza nei mercati del lavoro che tendono, perciò, a configurarsi come fortemente segmentati sulla base del genere, della classe e della nazionalità. L’impiego in agricoltura – dal punto di vista quantitativo – costituisce il settore dove si riversano una parte delle donne migranti, dopo il lavoro domestico e di cura. In questo
ambito occupazionale, emerge un maggior isolamento delle lavoratrici agricole che specularmente tende a caratterizzarsi con una forte dipendenza dal datore di lavoro rendendo i rapporti di lavoro particolarmente permeabili a forme di variegate di abuso (incluse quelle a sfondo sessuale) e sfruttamento: le paghe di fatto sono mediamente minori, mentre gli orari di lavoro sono pressoché assimilabili a quelli dei colleghi maschi. Anche le donne, come gli uomini, sono reclutate da caporali (o dalla “caporala”, come nel brindisino/tarantino) o da datori di lavoro che mirano a sfruttare a loro vantaggio la loro maggior vulnerabilità/ricattabilità (soprattutto in presenza di figli/genitori a carico), ovverosia lo stato di bisogno nella quale versano sovente i lavoratori/trici.

Sono stati analizzati 260 procedimenti penali, riguardanti tutti i settori. Da tale analisi, viene confermato come lo sfruttamento non si concentri nel Meridione, ma sia presente – in modo consistente – anche nelle altre ripartizioni geografiche. Su 260 procedimenti monitorati più della metà e, per l’esattezza, 143, non riguardano il Sud Italia. Il Veneto e la Lombardia – con le Procure di Mantova e Brescia – sono le Regioni che seguono più procedimenti; così le Procure dell’Emilia-Romagna e quelle del Lazio (con Latina al primo posto), nonché della Toscana (con Prato). Tra i procedimenti esaminati l’agricoltura è il settore maggiormente rappresentato con ben 163 procedimenti.

Nella Parte III sono riportati i casi di studio territoriali effettuati in cinque regioni: il Veneto (con le province di Verona, Vicenza, Padova e Rovigo), la Toscana con la provincia di Livorno (e in particolare la Val di Cornia), la Campania con la provincia di Salerno (e in particolare la Piana del Sele con i comuni di Battipaglia ed Eboli), la Puglia con le province di Brindisi e Taranto ed infine la Sicilia con le province di Agrigento e di Trapani. In queste regioni sono anche presenti le cosiddette “Agromafie”.

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