Diciamolo subito, L’immortale non è ciò che tutti temevamo che fosse, e cioè un mero fanservice di contorno a Gomorra, la solita operazione commerciale (realizzata fra l’altro con una dubbia operazione di resurrezione in stile Beautiful), raffazzonata in tutta fretta per cavalcare l’onda del successo della serie madre. Lungi dall’essere un semplice scimmiottamento di Gomorra, il film di Marco D’Amore ne rappresenta invece un nuovo importante capitolo. Ciro di Marzio è tornato perché aveva ancora qualcosa da dire.
Dopo aver diretto due episodi della quarta stagione di Gomorra, Marco D’Amore sembra averci preso gusto e si cimenta anche dietro la macchina da presa cinematografica, filmando un esordio assolutamente degno di nota. Un esperimento crossmediale riuscito che concilia due mondi, quello seriale e quello cinematografico che, piaccia o meno, sembrano destinati a incontrarsi sempre più spesso.
Il film è stato presentato come trait d’union tra la quarta e la quinta stagione di Gomorra (d’altronde, adesso che lo sappiamo vivo, tutti ci aspettiamo che Ciro abbia un ruolo decisivo nel futuro dello show), anche se nel complesso resta comunque un film compiuto che può essere apprezzato anche da chi non ha seguito la serie.
Ciro Di Marzio viene ripescato dalle torbide acque del golfo di Napoli dopo il colpo di pistola esploso da Genny, proprio come molti anni prima, ancora in fasce, fu estratto vivo dalle macerie del terremoto, guadagnandosi, da allora e per sempre, il soprannome di immortale. Questo il punto di partenza della pellicola che procede per tutta la sua durata lungo un doppio binario, quello del presente, che vede Ciro agire nella lontana Lettonia, e quello del passato che scava nella sua infanzia per le strade di Napoli (la Napoli degli anni Ottanta qui splendidamente ricostruita), fino ad arrivare al cuore del personaggio, proprio lì dove non è riuscito ad arrivare il proiettile.
Ma è un cuore ormai cupo, disilluso, che non ha più spazio per niente. La differenza fra i due piani temporali (ed esistenziali) è palpabile. Incolmabile appare la distanza fra il piccolo Ciro, affascinato da Bruno e con gli occhi ancora pieni di sogni e di speranza, e il Ciro adulto, un uomo sempre più solo, destinato a non trovare pace. Figura maledetta svuotata dalla vita e che si porta addosso il peso di efferatezze che non può perdonarsi, come l’assassinio della moglie. Un sopravvissuto fra le macerie. Sopravvissuto sì, ma a che prezzo? Je so’ già muort’, dirà a un certo punto. L’immortalità, in certi casi, può essere una condanna.
La maledizione che grava sulla tragica figura di Ciro sembra colpire in particolare le donne della sua vita. La moglie, la famiglia, e adesso scopriamo anche Stella (interpretata da Martina Attanasio), la cui figura compare pochissimo a schermo, eppure rimane impressa come uno dei ritratti femminili di Gomorra più intenso e tragicamente reale.
Opera perfettamente integrata nell’estetica dell’universo di Gomorra di cui conserva gran parte dello staff, a partire dalle splendide musiche apocalittiche dei Mokadelik, che riprendono variandolo il tema principale della serie. Anche la fotografia e il montaggio risultano impeccabili, coerenti con gli alti standard a cui la serie ci ha abituato.
Così come Gomorra, L’Immortale rifugge la facile tentazione di glorificare la figura del gangster, fornendo invece un ritratto a tutto tondo, realistico e di spessore. Ciro Di Marzio era uno dei personaggi più complessi di Gomorra, spietato e umano allo stesso tempo, certamente vittima della povertà e dell’ambizione di uscirne. Cresciuto durante la serie, puntata dopo puntata, l’Immortale si ritrova adesso a fare i conti con sé stesso. Silenzioso testimone di una vita tragica, ma proprio per questo più audace e “coraggioso” di molti altri, perché chi non ha più niente da perdere non ha paura nemmeno di morire. Perché se la vita diventa una condanna, allora la morte può essere un dono. Come Ciro dice al traditore Bruno, risparmiandogli la vita, nel toccante epilogo: «A mort’ è nu regal ca nun t’ammiert’. P’ te nun ce starà né pace né perdono ngopp’ a sta terra».