Continua il susseguirsi di studi italiani e internazionali sul legame inquinamento atmosferico-Covid-19. Dopo il legame tra Pm 2.5 e Covid19, di cui abbiamo già parlato nelle settimane scorse , ad essere messo sotto accusa ora è anche il biossido di azoto, un altro tra gli inquinanti killer da tempo presenti nelle città moderne.
Un nuovo studio condotto dall’Università Martin Luther di Halle-Wittenberg in Germania potrebbe fornire nuovi dati a supporto di questa ipotesi. L’analisi, pubblicata sulla rivista Science of the Total Environment, ha messo a confronto i livelli di NO2 di gennaio e febbraio in sessantasei regioni di Italia, Spagna, Francia e Germania con i decessi da Covid-19 registrati fino al 19 marzo. La ricerca ha combinato insieme i dati satellitari internazionali sull’inquinamento atmosferico, le correnti d’aria e i decessi relativi al coronavirus. Sulla base di ciò, ha ipotizzato che le regioni con livelli di inquinamento permanentemente elevati hanno un numero di morti significativamente maggiore rispetto ad altre.
Il biossido di azoto, No2, si sa, è un inquinante atmosferico che danneggia il tratto respiratorio umano. Lo studio ha poi combinato questi dati con quelli dei satelliti Sentinel 5P dell’agenzia spaziale europea (ESA) sui flussi d’aria verticali, partendo dal presupposto che se l’aria è in movimento anche gli inquinanti vicino al suolo sono più diffusi. Ma se l’aria tende a rimanere vicino al suolo, ciò si applicherà anche agli inquinanti presenti nell’aria, che sono quindi più probabilmente inalati dagli esseri umani in quantità maggiori causando problemi di salute. Afferma il dottor Yaron Ogen dell’Istituto di geoscienze e geografia dell’Università Martin Luther di Halle-Wittenberg.
Poiché il coronavirus colpisce anche il tratto respiratorio, è ragionevole supporre che potrebbe esserci una correlazione tra l’inquinamento atmosferico e il numero di morti per Covid-19. Fino ad ora, tuttavia, si è verificata l’assenza di dati affidabili per indagare ulteriormente su questo.
Il ricercatore è stato in grado di identificare gli hotspot in tutto il mondo con alti livelli di inquinamento dell’aria e contemporaneamente bassi livelli di movimento dell’aria. Li ha poi confrontati con i decessi correlati al Covid-19, analizzando in particolare quelli provenienti da Italia, Francia, Spagna e Germania. Il geoscienziato sospetta poi che il persistente inquinamento atmosferico nelle regioni colpite avrebbe potuto portare a una salute generale peggiore delle persone che vivono lì, rendendole particolarmente sensibili al virus, ma precisa:
La mia ricerca sull’argomento è solo un’indicazione iniziale del fatto che potrebbe esserci una correlazione tra il livello di inquinamento dell’aria, il movimento dell’aria e la gravità del decorso delle epidemie di coronavirus.
Aver respirato smog per anni avrebbe reso più vulnerabili le persone all’attacco del virus. Un’ ipotesi che spiegherebbe in parte anche il perché, ad esempio, la malattia non si manifesti così violentemente nei bambini, da meno tempo esposti all’inquinamento atmosferico. Il ricercatore autore della ricerca ha valutato infine le condizioni atmosferiche per valutare il livello di inquinamento e ha concluso che il 78% dei decessi esaminati è avvenuto in quattro regioni del Nord Italia e in una regione nei dintorni di Madrid, in Spagna. Le cinque regioni avevano la peggiore combinazione di livelli di NO2 e di condizioni di movimento dell’aria che impediscono la dispersione dell’inquinamento atmosferico. Ogen ha quindi evidenziato come la valle del Po in Italia e la regione di Madrid siano circondate dalle montagne, che impediscono la dispersione degli agenti inquinanti, così come la provincia di Hubei in Cina, dove è iniziata la pandemia. In conclusione Ogen sottolinea:
Tuttavia, la mia ricerca rappresenta una prima indicazione sul fatto che ci possa essere una correlazione tra il livello di inquinamento atmosferico, il movimento dell’aria e la gravità del decorso dell’epidemia di coronavirus.