“Toy Story 2”: la sfida vinta dalla Pixar

di Felice Sangermano

Con la sua terza regia, datata 1999, il genio creativo della Pixar, John Lasseter (coadiuvato da Lee Unkrich e Ash Brannon), ritorna nel colorato mondo di Toy Story, dove i giocattoli prendono vita all’insaputa degli umani.

Sono passati solo quattro anni dal primo capitolo della saga (QUI la recensione), ma si vedono tutti. Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa compie un notevole passo avanti dal punto di vista grafico e visivo: si guardino, ad esempio, gli splendidi paesaggi all’inizio del film, curati nei minimi dettagli, oppure i volti e l’espressività degli esseri umani. Le ambientazioni aumentano (e sono più particolareggiate): oltre alla camera di Andy, al Pizza Planet e alla casa di Sid del primo capitolo, i protagonisti si ritroveranno in una moltitudine di luoghi come le strade del centro, l’appartamento di Al, il negozio di giocattoli, un ascensore e perfino un aeroporto.  Anche le tecniche di ripresa risultano (ancora) più dinamiche e coinvolgenti rispetto al film del 1995, grazie soprattutto alla mobilità della macchina da presa che conferisce al lungometraggio animato un aspetto più cinematografico che mai.

TRAMA Finito per errore tra gli oggetti di un mercatino, Woody viene trafugato da un collezionista che ha intenzione di rivendere l’intero set western di cui fa parte a un museo di Tokyo. Ma Buzz e il resto della banda non resteranno con le mani in mano, tentando di salvare l’amico prima che venga spedito. Sempre che lui voglia essere salvato.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco: Toy Story 2 non è solo un film per bambini ma strizza l’occhio anche agli adulti e in particolar modo ai cinefili, con le sue numerose citazioni (come il duello fra il “falso Buzz” e la sua nemesi, l’imperatore Zurg, che richiamano esplicitamente Star Wars), per non parlare della gustosissima sequenza finale dei finti ciak sbagliati. Ma non si tratta solo di citazionismo o altre questioni prettamente cinefile.

Come al solito, al di là delle risate e dell’avventura (realizzate in maniera veramente magistrale), la Pixar cela riflessioni profonde. Il tempo passa, i bambini crescono, i giocattoli non hanno più uno scopo. Vengono abbandonati. Non si tratta più soltanto di reggere l’impatto del “nuovo”, con gli space rangers che arrivano a rimpiazzare i vecchi cowboy. Stavolta l’abbandono è generale perché riguarda tutti i giocattoli, nella loro stessa essenza, e non soltanto quelli che diventano obsoleti.

Perché l’infanzia finisce, come tutto il resto, e inevitabilmente molti amici si perdono per strada. E allora Woody comincerà a interrogarsi a un livello più profondo, esistenziale e identitario: qual è il vero scopo di un giocattolo? che significato dare alla propria esistenza di balocco sapendo che un giorno il proprio padroncino crescerà? La riflessione scivola dolcemente, e senza stacchi, su temi più alti quali la vecchiaia, l’abbandono, il senso e gli obiettivi della propria esistenza. E allora il vecchio cowboy si troverà di fronte a una scelta che lo farà vacillare: restare fedele al suo ruolo di giocattolo, pur sapendo che il suo padroncino prima o poi crescerà e lo abbandonerà, oppure diventare un raro e ricercato pezzo da museo, adorato da tutti i bambini del mondo, che però lo guarderanno solo attraverso una teca, senza mai giocarci per davvero.

Un bivio sintetizzato dal discorso di Stinky Pete: «Quanto tempo durerà, Woody?… Credi davvero che Andy ti porterà all’università? O in viaggio di nozze?…Andy sta crescendo, e purtroppo tu non puoi farci niente. È una tua scelta, Woody… Puoi tornare a casa o restare insieme a noi e diventare immortale. Sarai amato da molte generazioni di bambini…». Woody farà la sua scelta. E stavolta sono le parole di Buzz ad illuminarci: «Sotto quell’imbottitura c’è un giocattolo che mi ha insegnato una cosa: vale la pena vivere anche se c’è un solo bambino che ti vuole bene. Io ho fatto tutta questa strada per salvare quel giocattolo… perché credevo in lui!».

Come sempre, uno dei punti forti dei film Pixar risiede nei personaggi: alla vecchia banda si aggiungono nuovi amici, tutti caratterizzati egregiamente, con le loro complessità e stratificazioni che ne rivelano lati nascosti e assai diversi da ciò che sembrava a primo impatto. Così, ad esempio, dietro la maschera vivace e simpatica di Jesse si cela un profondo dolore, mentre Stinky Pete non è poi quel giocattolo così saggio e ragionevole come sembra all’inizio.

Toy Story 2 è un film ricco di trovate e di inventiva, meraviglioso a livello visivo, montato e sceneggiato in maniera ineccepibile, impreziosito (come il primo capitolo) dalle musiche e le canzoni di Randy Newman, come il pezzo che ripercorre la storia di Jesse, When She Loved Me (che ha ricevuto un Golden Globe e una nomination all’Oscar nella categoria miglior canzone), cantata nella versione italiana da Emanuela Cortesi, uno dei momenti più toccanti di tutto il film, dove si narra del rapporto speciale tra la bambola e la sua padroncina Emily, finché però quest’ultima cresce sostituendo i giocattoli coi vestiti e i trucchi, fino a dimenticarsi completamente di Jesse e poi addirittura abbandonarla in uno scatolone. Anche le voci sono le stesse (azzeccatissime) del primo capitolo, con Woody doppiato dal compianto Fabrizio Frizzi (con Tom Hanks nella versione originale) e Buzz da Massimo Dapporto (con Tim Hallen nella versione originale). Il sequel di un capolavoro, si sa, rappresenta sempre un’ardua sfida: Toy Story 2 la vince alla grande.

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