“Il dormiglione”: il futuro secondo Woody Allen

di Felice Sangermano

Molti sembrano esserselo scordato, ma Woody Allen non è solo l’autore di splendidi drama (Match Point, Crimini e misfatti, Interiors, Blue Jasmine) o di sofisticate commedie romantiche (Io e Annie, Manhattan, La rosa purpurea del Cairo). Il regista newyorchese nasce innanzitutto come umorista, e il suo cinema degli esordi è in effetti tutto ripiegato sull’elemento comico, che viene spesso declinato in chiave slapstick. Le pellicole di questo primo folgorante periodo “Alleniano” vedono il dipanarsi incessante di una serie di gag tenute insieme da trame dal sapore surreale. Il dormiglione (Sleeper), del 1973, è un pregevolissimo esempio dell’Allen che fu.

TRAMA Ibernato nel 1973, Miles Monroe (Woody Allen), clarinettista jazz e proprietario di un ristorante vegetariano, si risveglia duecento anni dopo in un mondo completamente stravolto. Nel territorio corrispondente agli ex USA, dove si trova Miles, vige ora uno stato poliziesco e disumanizzato retto da un crudele “Leader”. Miles verrà coinvolto suo malgrado nella ribellione, entrando a far parte della resistenza capeggiata dal giovane Erno. Fra decine di futuribili (dis)avventure e gag rocambolesche, avrà anche il tempo di innamorarsi di una sedicente poetessa di nome Luna (Diane Keaton).

 

 

Con Il dormiglione Woody Allen irrompe nei territori del cinema di fantascienza, “saccheggiandone” l’immaginario (senza peraltro lesinare citazioni d’autore, come la voce del computer modulata sulle tonalità di HAL di 2001: Odissea nello spazio), e piegandolo ai propri graffianti scopi satirici. Dietro le risate (continue) la denuncia sociale e politica è feroce. Quello immaginato da Allen è un futuro distopico caratterizzato da repressive dinamiche dittatoriali, dove chi si oppone al potere viene sottoposto a una specie di lobotomia o “semplificazione elettronica del cervello”.

 

 

Una specie di opprimente mondo orwelliano che computerizza e cataloga tutto e tutti. Si tratta di una dimensione fredda e disumanizzata, dove ogni cosa risulta artificiale, dal cibo (pompato dalla scienza) al sesso (fruito in pochi secondi attraverso un’apposita macchina, tale “Orgasmatic”). Le donne sono diventate frigide, gli uomini impotenti. Schiere di automi li sostituiscono nelle faccende di casa. Perfino gli animali domestici sono robotizzati. L’irriverenza polemica e dissacrante di Allen non risparmia niente, scagliandosi con la solita intelligenza dirompente contro il potere, la tecnologia, i mass media. Fra frecciatine alle femministe (che bruciano i reggiseni producendo però un fuoco piccolissimo), alla cultura borghese dominante (istupidita e appiattita), passando per la scienza (tutti i cibi ritenuti un tempo nocivi sono ora salubri, e viceversa) e la politica americana (Miles, che afferma di aver assunto l’unica posizione politica della sua vita quando da piccolo rifiutò per ventiquattr’ore gli spinaci, dirà a proposito di Nixon: “Sì, era presidente degli Stati Uniti, ma so che quando usciva dalla Casa Bianca il servizio segreto contava l’argenteria”). Neppure la dimensione religiosa è risparmiata, con Paolo VII che, impadronitosi di una bomba atomica, provoca la guerra nucleare che porterà alla divisione della Terra nei due distretti, orientale e occidentale.

 

 

In questo futuro senz’anima, Miles/Woody, trovatosi a corto di valori, rivelerà a Luna, in un esilarante dialogo finale, di credere in due sole cose: nel sesso (quello “artigianale” però, altro che “Orgasmatic”) e nel decesso. Sex and death. Che poi sarà più o meno il titolo della sua opera successiva: Love and Death (1975).

Nel film fanno già capolino molte delle fondamentali ossessioni di Allen che caratterizzeranno il suo cinema a seguire: la problematicità del rapporto uomo-donna (“Mike, ma non capisci che anche le unioni più perfette fra uomini e donne non durano?” dirà Luna alla fine della pellicola. “È provato scientificamente. Vedi, c’è un’alchimia nei nostri corpi, la quale fa sì che ci veniamo reciprocamente sui nervi, cogli anni”), il rapporto ambivalente con la psicoanalisi (“Non vado dal mio psichiatra da duecento anni, ed era un freudiano puro. Se ci fossi andato per tutto questo tempo a quest’ora sarebbe ricchissimo”), le nevrosi, il nichilismo, il sesso.

La comicità delle parole lascia spesso spazio a quella del corpo, per la quale il personaggio Allen sembra essere naturalmente dotato. Una comicità visiva ritmata da musiche jazzistiche squisitamente slapstick (composte dallo stesso Allen e suonate dal regista insieme alla Preservation Hall Jazz Band di New Orleans). Geniale l’intuizione di inserire questo tipo di comicità corporea derivante dal passato in un contesto avveniristico: nel futuro si scivola ancora sulle bucce di banane, che però nel frattempo sono diventate grandi come canoe.

 

 

Qui Allen dirige per la prima volta una delle sue muse predilette, Diane Keaton, che lo ripaga con un’interpretazione fantastica. È anche uno dei primi film in assoluto cui si parla di clonazione, concetto che viene peraltro “spiegato” durato la visione, dato che all’epoca il termine, attualmente sulla bocca di tutti, non era di uso comune. Occhio alla traduzione italiana che, se da un lato ha il merito di riuscire a migliorare alcune battute (menzione d’onore al doppiaggio del compianto Oreste Lionello), dall’altro a volte esagera nell’adattarle alla sensibilità nostrana.

Film perfetto? No. Consigliato? Assolutamente sì. Il primo Allen allo stato puro.

 

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