Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, nel firmamento del cinema di arti marziali c’era una stella che brillava più di tutte, ed era quella di Bruce Lee. Dopo la sua prematura scomparsa, avvenuta in circostanze tuttora controverse, sono stati sfornati centinaia di film e documentari incentrati sulla figura del famoso attore e artista marziale. In molti casi, però, si tratta di mere operazioni commerciali senz’anima, messe in atto al solo scopo lucrativo di cavalcarne il mito.
Fra le pellicole che restano dopo la scrematura vi è certamente Dragon – La storia di Bruce Lee, biopic del 1993 diretto da Rob Cohen e la cui sceneggiatura è tratta dal libro biografico della vedova di Lee, Linda Lee Cadwell.
TRAMA Il film narra le vicende di un giovane Bruce Lee (Jason Scott Lee) che, dopo aver trascorso la prima parte della sua vita a Hong Kong, si trasferisce in America dove conosce la futura moglie Linda (Lauren Holly) e apre una scuola di Jeet Kune Do, arte marziale e filosofica da lui elaborata, per approdare infine al mondo del cinema.
BRUCE LEE A 360 GRADI Oscillando tra vita pubblica e vita privata, Dragon ci offre uno spaccato a tutto tondo di Bruce Lee, delineando l’uomo dietro la superstar. Le vicende sono ripercorse in maniera semi-romanzata: diverse sono le libertà narrative, spesso gli eventi vengono edulcorati (ad esempio, il rapporto di Bruce col padre, che in realtà era molto più formale di quanto mostrato nella pellicola; oppure lo scontro con Wong Jack Man, svoltosi in modalità assai differenti), ma nel complesso il ritratto dell’uomo e dell’attore non appare snaturato. Soprattutto, non si cade nelle trappole stucchevoli dell’agiografia (come spesso accade coi biopic di personaggi leggendari e così amati dal grande pubblico), dal momento che, oltre ai pregi, ci vengono mostrati anche i lati più umani e oscuri di Bruce.
IL DEMONE Una suggestiva traccia surreale che riguarda un demone misterioso che si trasmette di padre in figlio nella famiglia Lee percorre tutta la pellicola, confondendo realtà e finzione e restituendo tetri presagi di morte, tanto più agghiaccianti alla luce della tragica fatalità che riguardò Brandon Lee, scomparso sul set del Corvo, a soli due mesi dall’uscita di Dragon. Per la verità era a lui, a Brandon, che era stato originariamente offerto il ruolo di protagonista in Dragon, ma l’attore rifiutò la parte: egli non voleva vivere all’ombra del padre e stava cercando la sua strada personale per il successo. Successo che sarebbe fatalmente arrivato postumo proprio dopo l’interpretazione del CORVO. Dopo il rifiuto di Brandon, la scelta ricadde su Jason Scott Lee (che, a proposito, nonostante l’omonimia del cognome, non ha alcuna parentela con Bruce e Brandon). Da un punto di vista fisico, Jason e Bruce non possono definirsi due gocce d’acqua, laddove nel corso degli anni, soprattutto con la Bruceploitation, abbiamo potuto ammirare veri e propri “cloni” di Bruce Lee. Tuttavia l’attore statunitense di origine cinese si cala nel ruolo col giusto carisma, impegnandosi a replicare smorfie, gesti, gridolini e tutto il resto dell’inconfondibile repertorio di Bruce. Per prepararsi alla parte, Jason intraprese peraltro un duro allenamento di Jeet Kune Do, disciplina di cui poi divenne anche allenatore qualificato, raggiungendo risultati eccellenti. La sua fisicità sullo schermo è a tratti calamitante e le sue doti atletiche innegabili.
ESPERIMENTO RIUSCITO Un ottimo biopic che rifugge dal banale appiattimento e dal manicheismo. Prova ne è il fatto che, se da una parte si evidenzia il razzismo americano verso la comunità cinese, dall’altra si mette in risalto anche la chiusura di quest’ultima che si ostina a vivere isolata e nasconde la propria cultura ai gwai lo (i bianchi), che considera come nemici (insieme ai neri). “Ma non è vero che sono nemici”, dirà Bruce a tal proposito. “Non ci conoscono affatto. Con la nostra abitudine di vivere isolati, gli abbiamo nascosto la bellezza della nostra cultura. Lasciamogliela vedere!”. In effetti, Bruce si troverà a combattere sia contro il razzismo degli americani (rappresentato, ad esempio, dalla madre di Linda, ostile all’unione della figlia con uno dalla “pelle gialla”) sia contro le ristrette vedute della comunità cinese che vuole impedirgli di insegnare la sua arte marziale agli americani. E non combatterà solo a suon di pugni. Perché — ed è ciò che molti ignorano e che invece il film ha il merito di sottolineare — Bruce Lee non era solo cazzotti e calci volanti, ma un uomo di grande spessore, laureato in filosofia e gran pensatore egli stesso.
LA REGIA di Rob Cohen non può definirsi autoriale, ma certamente sentita. Sceneggiatura buona, senza grossi picchi. Combattimenti coreografati in maniera accattivante (la rivincita contro Wong Jack Man è il più emozionante), ma poco tecnica(non è un film di arti marziali). Suggestive le musiche di Randy Edelman. Nel complesso un biopic più che godibile, che, pur senza assurgere allo status di capolavoro, fa più del suo compitino e lascia traccia nella mente e nel cuore degli spettatori.
Efficace omaggio al mito intramontabile di Bruce Lee. La scelta di non rappresentare la morte non è casuale, ma risponde all’intenzione di concentrarsi sulla vita dell’artista marziale piuttosto che sul mistero della sua scomparsa, come del resto dichiara la stessa Linda Lee alla fine del film: “A distanza di tanti anni molti cercano ancora di capire la sua morte, ma io preferisco ricordare la sua vita”.