Circa vent’anni fa James Cameron si innamorava perdutamente di un manga, tale Battle Angel Alita (1990), capolavoro cyberpunk di Yukito Kishiro, al punto da decidere di trasporlo per il grande schermo. Cameron non era esattamente l’ultimo arrivato (vantando pellicole del calibro di Aliens, i primi due Terminator e Titanic, tanto per dirne alcune): agli estimatori del regista e del mangaka venne la bava alla bocca. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo Avatar: il cineasta canadese, completamente assorbito dallo sviluppo del mondo fantascientifico di Pandora, procrastinò la realizzazione di Alita un anno via l’altro, senza alcun riguardo per l’hype elevatissimo venutosi a creare nel fandom. A sua discolpa va detto che in realtà Cameron teneva molto alla regia di Alita e non voleva rinunciarvi. Ma l’impegno crescente richiesto dalla realizzazione del “progetto Avatar” (se ne prevedono quattro sequel) lo obbliga alla fine a capitolare. Il cineasta cede così la regia a Robert Rodriguez, accontentandosi di rimanere nel “progetto Alita” in veste di sceneggiatore e produttore. È così che a vent’anni dai primi rumor e dopo una serie interminabile di rinvii, finalmente nel 2019 arriva in sala Alita – Angelo della battaglia.
LA TRAMA Anno 2563. Zalem, l’ultima delle città sospese sopravvissuta alla grande guerra, prospera nei cieli vomitando sotto di sé i suoi rifiuti, attorno ai quali si è agglomerata una città-discarica, detta “città di ferro”, subordinata alla prima e popolata da umani (per lo più dotati di protesi robotizzate) e macchine d’ogni genere. Un giorno Ido Dyson (Christoph Waltz), cyberdottore della città di ferro, rovistando tra gli scarti in cerca di componenti, rinviene il mezzobusto mutilato di una ragazza-cyborg il cui cervello umano è incredibilmente rimasto in vita. Ido le darà un nome, Alita, e un corpo meccanico, proiettando in lei la figlia che aveva perduto. Rinata a nuova vita, ma immemore del suo passato, Alita (Rosa Salazar) intraprenderà il suo personale percorso alla ricerca dell’identità perduta e di un nuovo scopo nel mondo.
Come ogni opera derivativa, Alita crea una scissione: chi non conosce il manga originario di Kishiro si approccerà al lavoro di Cameron-Rodriguez come a un prodotto a sé stante, giudicandolo per quello che è, cioè un ottimo action sci-fi, perfino brillante sotto certi aspetti; chi però ha letto l’originale Battle Angel Alita del 1990 sarà portato inevitabilmente (e giustamente aggiungiamo) a comparare le due opere, riconoscendo in definitiva l’inferiorità della pellicola rispetto al manga. Pur non trattandosi di un lavoro trascurabile come altre celebri trasposizioni (vedasi il recente Ghost in the Shell del 2017), Alita – Angelo della battaglia non regge il confronto con l’originale, soffrendo in definitiva dello stesso difetto che affligge e storpia quasi tutti gli adattamenti cinematografici dei fumetti giapponesi: a fronte di un impianto visivo spettacolare, viene sacrificata l’originaria ricchezza narrativa e la densità di significati. Ben più ampio appare infatti il respiro del manga, le cui pagine sono intrise di profonde riflessioni filosofiche (con citazioni di Nietzsche, Goethe, Cartesio, Hans Henny Jahnn) che irrompono tra le tavole piene di scontri adrenalinici senza spezzare il ritmo della trama. Uno spessore che manca alla pellicola in cui, sicuramente anche per questioni di minutaggio, le tematiche esistenzialiste vengono sfiorate superficialmente, preferendo spingere più sul pedale dell’azione pura, in cui peraltro, e qui va reso merito a Rodriguez, il film riesce a dare il meglio di sé, con combattimenti coinvolgenti e spettacolari, coreografati alla perfezione, in maniera sempre chiara e pulita per lo spettatore, anche nelle sequenze più concitate (come quelle del Motorball).
La violenza nel film risulta mitigata rispetto al manga, in cui è presente una vera e propria “poetica” dello smembramento dei corpi (meccanici e non) e in cui cervelli spappolati e occhi che schizzano via dalle teste sono all’ordine del giorno. I personaggi risultano inoltre più appiattiti e manichei rispetto al capolavoro di Kishiro, dove i buoni e i cattivi hanno confini più sfumati. Il mangaka giapponese mostra tutte le sfaccettature dei suoi personaggi, anche quelle più controverse, a partire dai protagonisti Alita (la cui personalità fumettistica risulta più contraddittoria e ondivaga, racchiudendo in sé allo stesso tempo l’angelo e il demone, la carne e il ferro, l’infantilismo e l’erotismo, il tutto all’interno di un percorso di consapevolezza e maturazione esistenziale più accidentato e complesso) e Ido (anch’egli più ambivalente nel manga, laddove nel film appare ripulito dei suoi impulsi più deteriori), passando per gli antagonisti (come Makaku/Grewishka di cui viene completamente taciuto il toccante background psicologico che nel manga porterà Alita a versare lacrime sincere). Chiariamoci: non si tratta di feticismo splatter o sterile gusto per il sordido. Semplicemente, se il senso del lavoro di Kishiro era proprio quello di riflettere sulla natura stratificata dell’essere umano, evidenziandone lordure e contraddizioni, allora bisognava lasciare questi elementi anche nella trasposizione cinematografica, evitando di ripulirlo solo per renderlo più appetibile al vasto pubblico. Il manga Battle Angel Alita tira pugni allo stomaco del lettore: così doveva fare anche la pellicola se davvero voleva preservarne lo spirito, impegnandosi a conservarne tutti gli aspetti, anche (e soprattutto) quelli più violenti e indigesti.
Difetti che pesano sul risultato finale del film contribuendo a classificarlo come una buona pellicola, ma che a conti fatti perde di netto il confronto con l’originale, sprecando un’occasione ghiottissima.
Su tutto spicca l’aspetto visivo e spettacolare del film (Rodriguez sembra aver assimilato gli insegnamenti visionari del Cameron di Avatar) che immerge lo spettatore in un suggestivo universo immaginifico e distopico, con echi delle atmosfere cyberpunk di Blade Runner. Impressionante il lavoro di CGI realizzato sulla protagonista. L’interpretazione della Salazar riesce a emergere dalla patinatura della computer grafica attraverso la sinuosità delle movenze e le coinvolgenti espressioni facciali. Attraverso anche quei tanto discussi occhi (volutamente sproporzionati per aderire all’aspetto di Alita nel manga) capaci di portare a galla tutta l’umanità imprigionata nell’acciaio.
Un’opera che mescola magistralmente live action e CGI, con un cast di altissimo livello: accanto a Rosa Salazar, recitano i tre premi oscar Christoph Waltz, Jennifer Connelly e Mahershala Ali. Sullo sfondo il misterioso personaggio di Nova interpretato da un non accreditato Edward Norton, pronto ad assumere un ruolo di primaria importanza negli eventuali sequel. È difatti evidente che Alita sia stato concepito come parte di un progetto più grande, da dipanarsi in uno o più sequel (ma questo sarà solo il botteghino a decretarlo).
In conclusione, pur non disprezzando il lavoro di Rodriguez, la cui scelta non è stata infelice (e forse mossa da una certa tendenza Girl Power del cineasta statunitense), non possiamo fare a meno di chiederci cosa ne sarebbe venuto fuori se al timone della regia fosse rimasto Cameron, se non altro ben più avvezzo del primo a progetti imponenti e avanguardistici come questo. Confidando negli eventuali sequel, per adesso il vero angelo della battaglia rimane confinato fra le pagine del manga.